Merletti di rugiada

Un grande giardino, bambino, madri, un’altalena dimenticata. Secondo classificato nel Live di Rozzano con Livio Gambarini come guest star, un racconto di Andrea Partiti.

 
Oggi voglio parlarvi dei Giardini di Valbassa, un vivace e popoloso paese della mia regione.
I Giardini, polmone ammodernato di un’ampia villa di nobiltà decaduta sin dall’epoca del tuchinaggio, sono il grande punto di ritrovo pomeridiano per bambini, giovani madri, badanti, venditori ambulanti con sacchi di chincaglieria da turisti e tutta quell’umanità varia e colorata che sotto il sole vaga senza una meta precisa e ne viene attirata con promesse di frescura e quiete. Non è raro vedere una giovane coppia appartata con dei grossi tomi sulle ginocchia che usa le radici di uno dei grandi olmi dell’area più antica come un’aula studio dotata di ogni distrazione.
Dei molti ingressi, i bambini ne usano uno soltanto, sul lato destro rispetto alla grande villa vuota, quello che affaccia sulla via delle scuole, da cui arrivano in gruppetti rumorosi attaccati alle gonne delle madri a cui hanno affidato le cartelle, pronti a scrollarsi di dosso con una corsa l’immobilità e la concentrazione del mattino. Quando anche arrivassero da altre direzioni, l’abitudine li porta a correre verso il “loro” grande cancello, spalancato e simbolico, ignorando gli altri accessi.
I vecchi alberi del Giardino, cresciuti a intrecciarsi in un tetto, sono organizzati in file ordinate che si allontanano radialmente dal grande lago tondo al cui centro, a dirigere la marcia vegetale, trovate un’imponente fontana di cemento, dall’aria triste e limacciosa, come una gigantesca giara da acquario coperta di alghe. Questo lago, considerato da ogni madre — a buona ragione — minaccioso, è pattugliato circolarmente dall’unica guardia del parco, i cui compiti principali sono salutare ogni donna incroci il suo percorso con un sorridente sollevarsi di baffi e intimorire bonariamente i più piccoli.
L’angolo più ambito del parco, a cui tutti i bambini accorrono entrando nei Giardini, è la Duna. Alla Duna trovate le altalene, gli scivoli, i ponti di corde, i caroselli a spinta manuale col loro pregiato posto a sedere sulle sbarre del grande volante, riservato a chi dirige il gruppo.
La Duna è brulla, senza neppure un innocuo cespuglio di viburno a profumare l’aria, perché le madri sedute sulle panchine tutt’attorno possano sempre avere sott’occhio i figli. Questa sua anomalia la rende il luogo meno adatto per nascondersi e cercarsi, ma questo mai ha scoraggiato i bambini dal provarci comunque, generazione dopo generazione.
L’unico albero alla Duna, discosto dal centro, è un monumentale platano nodoso, inevitabile fulcro di ogni gioco. Alla sua base un piccolo cartello in legno racconta di chissà chi, che chissà quando ha legato al tronco il suo cavallo per raccogliere gli abitanti di Valbassa per un qualche suo nobile scopo. Nessun bambino ha mai avuto tempo di fermarsi a decifrare le lettere bruciate, quando c’era sempre un animale da osservare, un gioco da organizzare, un amico da inseguire.
Attorno alla Duna e sulle giostre al suo interno, rigorosamente al sole, i cervelli si cuociono, le sbarre metalliche delle strutture si arroventano e solo il vento porta un benessere sporadico.
Vi domanderete senza dubbio di quel grande ramo che parte dal platano, quasi orizzontale sul terreno e si spinge verso un angolo discosto e quieto. Vi domanderete di quella panchina in pietra dall’aria antica che l’ombra ripara da mezzogiorno fino a sera. Vi domanderete della piccola altalena tinta di blu lì a fianco, stranamente pensata per un singolo bambino, anziché con una fila di seggiolini pronti a lanciarsi per aria in una gara senza vincitori.
Quando le madri posano lo sguardo su quell’angolo della Duna, si sbrigano a distoglierlo e cercano rapidamente loro figlio con gli occhi. Perdono il sorriso per un attimo, finché non ritrovano il piccolo viso familiare.
Se un bambino corre verso quell’altalena isolata, un grido lo richiama all’ordine prima che vi si avvicini. Non importa da chi arrivi, c’è sempre un grido che lo ferma con una scusa: svestirlo, coprirlo, levargli con la saliva una macchia dalla faccia, tentarlo con un gelato al chiosco poco lontano.
Il pudore delle madri che dapprima le sparge una per ogni panchina, arrivando, si scioglie ogni giorno in nuove combinazioni, creando amicizie temporanee della durata di un pomeriggio, a volte di una stagione, raramente di una vita, spingendole a dividere gli spazi.
Ogni tanto una nuova madre, ingenua, arriva ai Giardini già ben occupati, e senza un viso amico a cui dirigersi viene attirata dall’ombra piacevole di quel piccolo spazio riservato in fondo al grande ramo. Prova ad avvicinarsi alla panchina in pietra. Entra nella bolla di aria fredda, stringe con più forza la mano del bambino che accompagna. Non sa perché, ma d’improvviso il sole, il caos, la vita del resto del parco le sembrano una scelta migliore, più sana, e decide che si rilasserà un altro giorno leggendo il romanzetto che porta in borsa, approfittando di quella buona posizione. Non oggi. Non lì.
Un giorno capirà il perché, sussurrato da voci scettiche dove non ci sono ombre, e rinuncerà a quel desiderio, sospirerà al pensiero di un pericolo appena percepito.
Alla sera, quando tutte le madri se ne sono andate dai Giardini, tenendo stretto per mano il loro bambino, quando anche l’ultima risata si è spenta, quando gli scoiattoli discendono e vanno a spigolare tra merendine schiacciate, cetrioli gettati di nascosto dai tramezzini e mozziconi di sigaretta macchiati di rossetto, solo allora quella solitaria altalena si mette in moto. Ondeggia appena come se fosse il vento a spingerla, poi più in alto, con più slancio. Uno sbuffo di polvere sembra sollevarsi dalla panchina.
All’alba, sulla pietra, resta solo la rugiada disposta a disegnare impronte di raffinati merletti, di un altro tempo, di un’altra era.

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