Prima il dovere

Una “divina” offerta di lavoro in questo racconto di Valter Carignano, secondo classificato nel Capitolo del Camaleonte dedicato a Gaiman.

 
Il dottor Francesco Sbano alzò la testa di scatto, quando batterono alla serranda. Una fitta fra le scapole gli ricordò che mesi prima si era autoprescritto di andare a fare pilates. O a correre. O almeno ad andare in studio a piedi. Naturalmente, non aveva fatto niente di tutto questo.
Ma chi è che bussa, a quest’ora? pensò.
«Arrivo, arrivo.» borbottò. Salvò il file, si stiracchiò con molta cautela e attraversò la sala d’attesa. «Comunque, l’ambulatorio sarebbe chiuso, eh? Non è che se vedete la luce accesa…» Sospirò. Ma che mi lamento a fare? Vediamo che vuole e finiamola. Scemo io che mi sono fermato a scrivere le ricette.
Aprì la porta che dava sul marciapiede e premette l’interruttore, la serranda cominciò ad alzarsi lenta e cigolante. Il rumore gli ricordava quello delle sue vertebre quando si dava agli sport estremi, come sollevare le confezioni da sei di acqua.
Alzò la voce, per farsi sentire da chiunque ci fosse fuori. «Eccomi. Però se è per esami o altro mi faccia il piacere e passi domani mattina dalla dottoressa…» S’interruppe. Da sotto la serranda si cominciava a vedere un piede. Nudo.
Andiamo bene. Un mezzo matto scalzo sotto la pioggia.
Si trovò di fronte un uomo atletico di circa quarant’anni, abbronzato, con addosso una tunichetta bianca.
Sarà un indiano, di quelli che vivono in via Garrone. Però per uscire di casa così con ‘sto freddo dev’essere una cosa grave.
«Buonasera. Mi dica.»
«Tu sei Francesco Sbano, il medico» disse con marcato accento straniero, tanto che Francesco non riuscì a capire se fosse una domanda o una constatazione. «Beh, sì» rispose, nel dubbio.
«Leggi.» L’indiano porse a Francesco una pergamena arrotolata. Francesco l’aprì e intravide due righe di caratteri squadrati e ordinati. Non si prese il disturbo di mettere gli occhiali.
«Scusi, sa, non conosco la vostra lingua. Mi spiega a voce.»
L’indiano lo interruppe: «E’ ovvio. L’avevo detto io che non andava bene!» Camminava avanti e indietro, gesticolando. «Io viaggio, conosco il mondo, lo so come vanno le cose: datemi retta, no? Ma niente. Come parlare a una colonna dorica.» Si fermò e abbassò il tono, un po’ imbarazzato. «Comunque, è una… come dite, voi? Ah, sì. Un invito. Vieni.»
Gli porse la mano. Francesco lo guardò, cercando di capire. Non gli sembrava che l’indiano avesse cattive intenzioni, ma non si poteva mai sapere. «Ehm, un invito per cosa, scusi?»
L’altro ritirò la mano e scosse la testa. «Non hai capito. Certo, esattamente come aveva previsto la moglie del capo. E allora andiamo con ordine. Guarda la pergamena: in che lingua è scritta?»
«Eh? Un momento.» Avvicinò la pergamena agli occhi. «Ah, perbacco! È greco. Greco antico!» Sorrise. Gli era sempre piaciuto, il greco, ancora adesso leggeva i poeti classici con testo originale a fronte. Ma perché un indiano delle case popolari mi ha dà una pergamena in greco?
«Bene. Bravo. E io chi sono?»
«Beh, scusi, ma non la conosco. E’ sicuro di essere un mio paziente?»
«Macché paziente! Io sto benissimo, e comincio anche ad avere fretta. Sono Ermes, no?»
«Ermes. E di cognome?»
«Noi non abbiamo cognome.»
«Noi chi?»
«Noi dèi.»
Francesco si bloccò e cercò di prendere tempo soffiandosi il naso. Allora. Sono le nove e mezza di sera, in giro non c’è un’anima e davanti a me ho un indiano che si crede un dio greco. Devo assecondarlo, magari riesco a distrarlo e chiamare il 118
«Ah, certo. Che stupido. Ovvio, gli dèi non hanno cognome. Quindi, lei è Ermes, il dio messaggero.»
L’indiano allargò le braccia. «Finalmente. Era ora! Ti facevo più sveglio, ma ora che tutto è chiarito dammi la mano e andiamo. È tardi.» Di nuovo, gli porse la mano.
«Prego?»
«Oh per il Sacro Fuoco! Basta, è ora.»
Francesco sentì la stretta dell’indiano sul braccio, gli sembrò di perdere l’equilibrio e un istante dopo si trovò su un altopiano, fra alberi e cespugli fioriti. Sbatté gli occhi, abbagliato dalla luce improvvisa. «Do… dove siamo?»
«Sull’Olimpo. Ho un margine d’errore di cinque stadi, voi direste più o meno un chilometro. Dobbiamo soltanto attraversare il boschetto e ci siamo. Andiamo, il capo ci aspetta.»
Fra rimanere fermo in mezzo al niente e seguire l’indiano, Francesco scelse la seconda opzione, cercando anche di raccapezzarsi e scoprire dove fosse finito. Un secondo prima era nel suo studio in via Millelire a Torino, adesso era… dove? Si guardò intorno. Erba, fiori, alberi, qualche nuvola candida nel cielo azzurro. E l’aria ha uno strano odore. No, un profumo. Buonissimo. Gli solleticava le narici, gli sembrava di assaporarla mentre respirava. Mi avranno drogato?
Si accorse che l’indiano l’aveva distanziato e si affrettò. Cominciò a correre, non gli venne il fiatone dopo due passi e non sentì la solita fitta al ginocchio. Sì, mi hanno drogato e sto sognando.
A un centinaio di metri, vide tre donne bellissime uscire dal boschetto. Cominciarono a parlare all’indiano, che fece un gesto verso di lui e lo indicò. Francesco si fermò, non per stanchezza ma perché quelle creature meravigliose indossavano veli colorati trasparentissimi e lui non poteva fare a meno di rimanere lì, imbambolato come un coniglio sull’autostrada.
Bene. Sto sognando e non mi voglio svegliare.
Le donne lo guardarono e gli sorrisero. Una di loro lo fissò più a lungo, prese un fiore fra quelli che le adornavano i capelli, lo baciò e lo diede all’indiano, sempre guardando lui. Poi tutte e tre se ne tornarono nel boschetto e scomparvero ridendo.
L’indiano gli si avvicinò. – Hai fatto colpo, umano – gli disse. «Ma ci penserai dopo.»
«Ehm, pensare a cosa?»
«Ad Anthea, no? Ti aspetta vicino alla sorgente, al tramonto. Ma come dite, voi? Ah, sì: prima il dovere, poi il piacere. Che strano modo di dire, non ne ho mai capito il senso. Andiamo, è meglio non far aspettare il capo.»
«Anthea è quella ragazza bellissima – balbettò, con un filo di voce.»
«Mhm, sì. Se ti piace il genere – rispose l’indiano, con una piccola alzata di spalle.»
«E il capo…»
«È il grande Zeus. Il padre di tutti noi e bla bla bla» sorrise e gli fece l’occhiolino. «Bada che parlerà lui, ma chi ha l’ultima parola è Era, capito?» Un rumore di zoccoli li fece voltare. «Oh, Polittete! Come va?»
Francesco si riteneva una persona equilibrata, e tutto il suo amore per la cultura greca non arrivava a fargli dire che i Centauri fossero davvero esistiti, per esempio. Ma credere che una cosa non esista è più facile, quando non ce l’hai davanti che ti porge la mano.
«Onorato» disse Polittete.
« O-onorato» rispose, e quasi non si rese conto che aveva capito il Centauro anche se quello aveva parlato in greco antico. Polittete sorrise, scambiò qualche parola con l’indiano e se ne andò per la sua strada.
«Ma quindi…» Francesco esitò, indeciso se aggrapparsi ancora al ricordo della sua realtà o cedere. «Tu saresti Ermes, il dio messaggero.»
Ermes lo fissò, poi Francesco lo senti mormorare fra sé mentre si allontanava: «Sarà pure suo parente, ma a me questo qui sembra un po’ tonto».
 
Davanti a loro c’era una piazzetta con palazzi rivestiti di marmo, fontane, giardini. Due satiri e un minotauro erano seduti nel dehors di una taverna, un’amazzone incordava il proprio arco seduta su un muretto.
Entrarono in un atrio principesco, tutto fatto in marmo e granito, con arazzi alle pareti. Ermes fece strada attraverso alcuni corridoi e arrivarono di fronte a una porta che a Francesco sembrò d’oro massiccio. I due Giganti che stavano di guardia s’inchinarono e l’aprirono per loro.
Un pezzo d’uomo con capelli ricci banchi e una gran barba stava seduto su un trono, e a fianco a lui una donna dalla bellezza solenne, con grandi occhi che fissarono Francesco e sembrarono trapassarlo da parte a parte.
«Tu sei Francesco Sbano, medico» disse Zeus, e Francesco capì che era un’affermazione che lui doveva comunque confermare.
«Sì… Grande Padre.»
«Ermes ti ha detto perché sei qui?»
«Eh, veramente no, Grande Padre.»
«Ti ha chiamato il tuo avo. Deve partire, e tu lo sostituirai.»
«Il mio avo?»
«Asclepio, il nostro medico.»
Francesco sentì il cervello che faceva un triplo salto mortale per cercare di capire. Lui dunque era discendente del mitico Asclepio, portato dagli dèi nell’Olimpo per i suoi grandi meriti?
«Ah. Ma siete sicuri? Perché io…»
Zeus lo interruppe: «Noi sappiamo tutto!» E in lontananza si udì il brontolio di un tuono. Intervenne Era: «Uh, come sei irritabile! Te l’avevo detto che alla sera non devi mangiare pesante.»
«Sì, cara» abbozzò Zeus
«Ascolta, Francesco» continuò la dea. «Il nostro medico, il tuo avo, da più di diecimila dei vostri anni cura i nostri rari malanni. Ora comincia a essere un poco anziano. In fondo, in origine non era che un mortale e non crediamo possa vivere più di altri mille o millecinquecento anni. Vuoi diventare suo assistente e sostituirlo quando partirà per l’Isola dei Beati? Se accetterai, vivrai per almeno seimila anni ma dovrai rinunciare a tutto quello che avevi nel tuo mondo. Questa terra diverrà la tua casa e non potrai mai lasciarla. Se invece rifiuterai, Ermes ti ricondurrà dov’eri, e non ricorderai nulla di tutto questo se non in sogno. Cosa decidi?»
Francesco era paralizzato. In un istante, pensò a cosa avrebbe perso: pochi conoscenti, nessun amore, una vita tutto sommato inutile fatta di routine e noia. S’inchinò e disse: «Mia Signora, Grande Padre, accetto.»
«Allora, benvenuto fra noi, uomo che non sei più un uomo.» Era gli sorrise, benevola, e Francesco pensò che anche solo quel sorriso valeva tutto ciò che lasciava. «Ermes, per favore, conducilo al suo palazzo.»
Uscirono.
«Senti, Ermes» disse con un po’ di esitazione Francesco. «Non è che prima di incontrare il mio avo potresti indicarmi la strada per quella sorgente dove mi aspetterebbe Anthea?»

«Ma come? Voi non dite ‘prima il dovere e poi il piacere’?»
«Beh, sì ma… non sono più un uomo, no?»
Ermes sogghignò. «Impari in fretta. Bravo. Credi che ti troverai bene qui fra noi.»
Francesco sorrise. Sì, anche lui credeva si sarebbe trovato bene.

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