
A volte l’unico modo per puntare al futuro è affrontare il passato. Il racconto classificatosi UNDICESIMO nella BEST 13 delle prime 62 Edizioni di Minuti Contati.
«Lo hai sentito anche tu?»
Ogni sera la stessa storia, la stessa domanda. È sufficiente che tramonti il sole, per Matteo. Oddio, mica solo per lui.
«Dormi, amore mio» dico con tutta la dolcezza di cui sono capace.
«Me lo hai promesso, mamma» mi risponde, con gli occhioni sgranati, appena illuminati dalla lampadina da 20 watt sul comodino.
«Certo, domani. Di giorno.»
Gli lascio un bacio sulla fronte. Odora di sapone e salsedine, il mio Matteo. Spengo la luce, chiudo la porta.
Faccio il giro di casa a controllare che sia tutto sprangato. Alla fine appoggio la schiena al portone, tenendo con tutta la mia forza il fucile.
Il mare ruggisce contro gli scogli, alla base del faro. Sembra che voglia entrare, ma non è lui che vuole prenderci.
Un lamento. Un altro. In mezzo alle onde e alla schiuma, un cigolio come di scarpe bagnate. Sempre più vicino.
Bum. Sciaff. Squick. Squeck. Bum. Sciaff. Squick. Squeck.
Bum. Sciaff. Toc. Ssssss.
È arrivato alla porta. Scivolo a terra, imitando le lacrime sul mio volto. So che mi addormenterò così, senza cuscini né materasso, senza serenità, senza preghiere. Ma con lui dall’altra parte del portone, sapendo che domani non ci sarà più.
Andrea è sullo scoglio, con il costume nero e la pelle bruciata dal sole. Si volta verso di noi con un sorriso.
«Fai la bomba, papà!» urla Matteo.
«E bomba sia!»
Si tuffa, sollevando una quantità vergognosa di schizzi. Gli riesce bene, la bomba. Matteo scoppia a ridere e non riesco a trattenermi.
Aspettiamo che torni su. E aspettiamo. Aspettiamo.
Alla fine, esce dall’acqua. Ma non è più lui.
È giorno. Mi alzo con fatica, provata dalla notte di incubi e muscoli indolenziti. Preparo una frugale colazione, quello che potrebbe essere il nostro ultimo pasto in questo posto: se avrò forza a sufficienza, dopo oggi potremo andarcene. Matteo non deve crescere qui.
Lo vado a svegliare, ha gli occhi ancora cisposi quando apro la finestra.
«È una bella giornata!» faccio notare.
«Mamma, la promessa» mi ricorda, impietoso.
«Sì, amore. Prima la colazione.»
«Ma non ho fame!» protesta.
Sorrido. «Mangerai comunque qualcosa. Ok?»
Consumiamo le poche cose che ho messo sul tavolo, quindi lo faccio lavare e vestire. Mentre lo pettino, mi dico che potrei lasciarlo qui ad aspettarmi, in barba alla mia promessa. Ha gli stessi capelli e gli stessi occhi di Andrea. È bellissimo come lui. Non posso fargli correre un rischio così grande.
«Andiamo, mamma?» mi fa.
E in un attimo vedo il mio fallimento, lui che mi aspetta da solo in queste tre stanze, inutilmente. La notte che scende. La sua paura.
Bum. Sciaff. Squick. Squeck. Bum. Sciaff. Squick. Squeck.
No. Verrà con me, e se dovessi fallire, la farò finita per entrambi.
Il sentiero che porta alla grotta è ripido e spesso devo usare il fucile per non perdere l’equilibrio. Matteo, invece, è molto più bravo di me e si muove come una capretta.
Arriviamo fin quasi al livello del mare, a percorrere un passaggio che con l’alta marea scompare, poi risaliamo di un paio di metri.
Alla fine, l’entrata della grotta. Anche in pieno giorno, incute un certo timore. Matteo ha perso tutta la sua baldanza e mi si appiccica alla gamba come una cozza.
«Coraggio, amore mio.»
«Sì, mamma.»
«Coraggio» ripeto, più per me che non per lui.
L’interno della grotta è immerso in una penombra che consente di scorgere con sufficiente precisione le forme. Ma ci sono delle zone buie, ed è in quelle che percepisco dei movimenti che l’occhio non riesce a captare. La presa di Matteo mi fa quasi male. Devo stringere i denti, non posso permettere che si stacchi da me.
Avanziamo per qualche metro, poi lo vedo. Proprio mentre da fuori il mare comincia ad agitarsi.
Bum. Sciaff.
È disteso a terra. Ha ancora indosso il costume nero del giorno in cui si è perso in acqua. La pelle no, non è più la stessa: è del colore della roccia, macchiata di alghe. Le sue gambe si muovono con lentezza, come se stesse nuotando in sogno: sono deformi, la grottesca parodia di un tritone riuscito male.
Bum. Sciaff. Squick. Squeck.
«Amore» sussurro.
In risposta, Matteo singhiozza.
Imbraccio il fucile, miro alla testa. Accarezzo il grilletto, mentre i movimenti nelle zone buie intorno a noi si fanno più agitati.
Bum. Sciaff.
Prendo il respiro.
Bum. Sciaff.
Tiro il grilletto.
Bum. Sciaff.
Clic.
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