
Misteri innominabili, un’umanità che deve scendere a patti con loro pur di preservarsi. Selezionato durante la Dragon Fest Live at Home Edition, un racconto di Andrea Partiti.
Quando l’ultima luna di agosto inizia ad aprire l’occhio, nel villaggio le voci si abbassano. Le conversazioni si fanno private e sospettose. Le famiglie si guardano l’un l’altra, studiandosi speranzose e timorose.
Entro una settimana questo muto patteggiare porta a scegliere una vittima. Non c’è mai discussione, tutti capiscono di chi si tratta, da piccoli segni e indicazioni. Anche la vittima lo sa, perché smette di essere parte del gioco, gli occhi scivolano via e la evitano.
Nessuno mai ne parla ai bambini, perché i bambini fanno domande troppo difficili. Però arriva sempre il giorno in cui da soli mettono insieme i pezzi di quel rompicapo, dopo aver visto scomparire una persona ogni anno, rimossa non solo dal villaggio ma dalle lingue di tutti, amici e parenti.
Alcuni dopo essere stati scelti fuggono e si nascondono, ma l’isola è piccola, il bosco pulito e ordinato, le spiagge sono prive di insenature e grotte in cui rifugiarsi. Sanno bene che nessuna casa è sicura ormai, neanche quelle di chi li amava.
Alcuni prendono una barca, ma le correnti spingono violente verso riva, restituendo il fuggiasco alla spiaggia.
Alcuni provano a uccidersi, ma qualcosa da dentro ferma la loro mano armata di lama o il loro passo verso l’abisso. È troppo tardi e la vita non è più loro da gestire.
Gran parte dei prescelti però si rassegna, ricordando i tentativi degli anni precedenti, e si chiude in casa con la famiglia per un ultimo lungo banchetto senza limiti. Tutta l’isola allora china il capo in segno di riconoscenza e in processione si presenta alla porta con doni, cibo, ogni lusso alla loro portata.
Quest’anno tocca a me.
Lo vedo nelle lacrime di mia madre, lo vedo nella rabbia dei miei fratelli che spaccano legna come se fossero le teste di nemici da cui non possono difendermi.
«Ho avuto diciannove anni, diciannove buoni anni insieme a voi» dico loro, chiamandoli in un abbraccio, ma non li placa.
Quando la luna è piena mia madre mi porge come ultimo dono un abito nuovo, viola come il mare che mi attende. Lo indosso prima di uscire di casa.
Tutto il villaggio mi aspetta e a loro si unisce la mia famiglia. Cammino in mezzo alla gente verso la spiaggia, ma quando ci avviciniamo ai sentieri più scoscesi mi legano a un trono di legno consunto. Le catene tintinnano di dispiacere, ma non possono permettere tentativi disperati. Non ora.
Ho assistito ad appena tre di queste cerimonie e ricordo le urla disperate, le convulsioni, il terrore degli ultimi momenti. Vorrei pensare che sarò più dignitosa, ma ne sono così certa? Così accetto i ferri con un cenno.
Appoggiano il trono sulla battigia, la base sprofonda lentamente finché i miei piedi non si immergono nella sabbia tiepida e bagnata dalle onde.
Piango guardando il mare. Mia madre piange alle mie spalle. Il villaggio è muto in segno di rispetto: spegne le torce finché solo la grande luna ci illumina.
Passano minuti, forse ore. L’acqua che mi lambisce ormai le caviglie mi risveglia un formicolio lungo le gambe, che risale nelle ossa e mi afferra sempre più violento. Fatico a respirare, devo piegare la testa all’indietro per strappare qualche boccata ansimante. Sono bloccata in questa posizione quando ai margini dello sguardo vedo che sta iniziando. La pelle del collo si spacca, le clavicole si aprono e la creatura si fa strada verso l’esterno. Come un pallido tentacolo annusa l’aria fino a capire dov’è il mare. Il mare lo eccita, lo fa vibrare dal desiderio. La pelle si apre ancora di più e il sangue ne facilita l’uscita. Lo sento scivolare nel collo, una pulsazione alla volta. Mentre esce, lungo e pallido sotto la luna, mi schiaccia la trachea. Sta ancora uscendo quando perdo conoscenza per la mancanza di ossigeno, prima ancora che mi abbia abbandonata del tutto come un guscio vuoto.
Parte della mia coscienza lo segue. È ignaro del dolore che si lascia alle spalle, concentrato su un’unica missione di ciclica sopravvivenza.
Vedo ogni generazione nei suoi ricordi, da quando il Primo strisciò fuori da un mare rovente in cerca di un ospite. Gli scontri e la sottomissione. I tentativi di aggirare quel patto innominabile, sempre frustrati dal sale e dall’acqua. Vedo la mia famiglia riunita attorno al tavolo quando io sono stata prescelta. Vedo il verme scivolare sotto alla porta, allungarsi fino al mio letto, al mio cuscino, al mio cuore. Vedo il piccolo uovo viola ancorarsi al muscolo pulsante e assaggiare il mio sangue con curiosità.
Sarò io a scegliere, fra un anno.