Edi

Anelli di congiunzione tutt’altro che pacifici in questo racconto di Eugene Fitzherbert, terzo classificato nella Dragon Fest Live at Home Edition di Minuti Contati.

 
È notte. Sono seduta sul bordo di uno scoglio a scrutare il mare sotto di me, che borbotta e sciaguatta, rimbalzando indolente contro le rocce levigate da anni di fugaci baci salini. La luna è lassù nel cielo, dietro una coltre leggera di nuvole quasi immobili nell’oscurità fredda.
Sto aspettando, perché così mi è stato detto di fare.
 
Ricordo mia madre che mi raccontava di come fossi stata concepita, in riva al mare.
«Sai, Edi, tu sei figlia del mare.» Così esordiva ogni volta mia madre. «È l’acqua salata che ti ha generato, mentre ero sola a fare il bagno sotto la luce della luna. Qualcosa mi afferrò e mi trascinò giù, nelle profondità verdi e cristalline del mare più sconosciuto.» Di solito si interrompeva qui, altre volte continuava, blaterando esseri marini antropomorfi, versione ittica di qualche favola della buona notte o di qualche sogno che non voleva ammettere che fosse il suo.
Mia madre era così, sempre pronta a raccontarmi una storia, pur di far passare il tempo infinito che trascorrevamo nella nostra casetta di legno. Vivevamo quasi come due novelle naufraghe, lontane dal mondo circostante, quello che mia mamma chiamava Mondo Civilizzato. A lei non doveva piacere tanto questo Mondo Civilizzato, perché non faceva altro che condannarlo, ma allo stesso tempo era alla disperata ricerca di redimerlo. E diceva che lei era la sola che stava facendo qualcosa per salvarlo.
Perché volesse salvarlo, se lo odiava tanto, non sono mai riuscita a capirlo.
Era convinta che io fossi il punto di congiunzione, mi chiamava proprio così: la Ragazza A Metà, come se potesse avere un minimo di senso.
 
Se sono qui sugli scogli a guardare il mare lo devo anche a lei. A parte il fatto che mi considerasse una creatura del mare, lei mi ha insegnato a rispettare questo spettacolare luogo pullulante di miliardi di esseri viventi. Che siano pesci pagliaccio, oloturie o calamari giganti, mia madre amava tutte le creature del mare e le considerava quasi miei parenti, secondo la sua idea che il mare o qualcosa nel mare mi avesse generato. Beh, vi confesso che l’idea di essere una cugina lontana di qualche cozza zebrata non mi riempie di gioia…
Il tempo passava sempre più lentamente con mia madre, anche perché stava diventando monotona. Le sue storie erano sempre le stesse, non cambiavano mai e mi erano venute a noia.
Quando compii sei anni, qualcosa cambiò e mia madre decise che era venuto il momento di iniziare una nuova fase dell’educazione della piccola Edi: iniziò a farmi bere l’acqua di mare. E io bevvi.
Secondo lei serviva a nutrire la mia seconda metà, a coltivare la natura alternativa del mio essere. Per fortuna non mi ha rifilato dei vermi, a quelli non avrei saputo resistere.
Con l’acqua di mare, vennero anche le lezioni di Storia. Ho imparato un sacco di cose sul Mondo Civilizzato: le Città, le Nazioni, le Invenzioni. Cose che non ho mai visto dal vivo, sempre così abbandonata nel mio microcosmo a metà strada tra la terraferma e il mare aperto. L’unica persona che ho conosciuto di persona è stata proprio mia madre, poi nessun altro. Probabilmente, lei era l’ultimo essere umano sulla Terra.
 
Più mia madre mi raccontava quel che sapeva, più volevo saperne, come se fossi venuta al mondo per apprendere, immagazzinare e memorizzare. Ho saputo dei Computer, delle Navi che solcano i mari, dei Pescatori che come dei pazzi bastardi (parole sue) catturano e mangiano i poveri pesci del mare. Ho saputo di come il corallo stesse morendo e di quanto questo la facesse sentire in colpa.
Di solito concludeva queste piccole lezioni di Storia disperata con una piccola parola di speranza e quella parola ero io. Mi considerava la soluzione che avrebbe riappacificato il mondo della terra con quello del mare.
 
L’adolescenza bussò alla mia porta biologica quasi inaspettata e con essa arrivò la consapevolezza. Mia madre era ferma a fissare l’acqua, in attesa di qualcosa che forse non sarebbe mai arrivato. Io ero poco dietro di lei e da dentro di me emerse una bolla di pura epifania. Lei probabilmente aveva ragione, io ero un punto di contatto, una via di mezzo, una transizione. Forse c’era dentro di me qualcosa che veniva dal mare e forse era solo un istinto che ora stava fiorendo. In quell’istante capii cosa fossi, cosa mia madre avesse allevato: guardai il dorso delle mie mani, coperte da un sottile strato di squame rosate. Mi toccai il collo, gonfio per le branchie chiuse perché ero esposta all’aria, mi passai la lingua tra i minuscoli denti aguzzi che erano cresciuto dietro le mie labbra.
Ero un Predatore, un Predatore dei Mari.
Assaporai la mia prima vittima in un lampo e la consegnai alle acque. I brandelli di mia madre se ne andarono trasportati dalla corrente.
 
Ora sono qui e attendo, come mi è stato detto di fare dagli emissari del Popolo degli Abissi (il nome me lo sono inventato io). Stanno venendo per me perché io sono il punto di congiunzione, sono l’esperimento riuscito che permetterà loro di riconquistare la terra ferma.