Un pezzo di Matteo Strukul, la guest star della Strukul Edition di Minuti Contati. Al suo interno, indizi per il tema da lui scelto per lunedì 21 dicembre.
Wolf sentì il sapore dolce e denso del sangue che gli allagava la bocca. Era riuscito a proteggersi con lo scudo. La lama della spada era calata su di lui, rapida e scintillante, come l’ala nera della morte. Il suo avversario pareva incarnare la furia.
Allo stato puro.
Ma, malgrado avesse parato il colpo, Wolf non aveva potuto evitare che lo scudo gli andasse a sbattere sul naso, aprendogli un lungo taglio scarlatto. Il dolore si propagò in onde sferzanti, quasi accecandolo.
Eppure, quel colpo formidabile lo aveva risvegliato dal senso di smarrimento e di paura che lo aveva attanagliato con denti affilati, rendendolo rigido nei movimenti quasi fosse, d’improvviso, diventato una bambola di stracci.
Così, la sua reazione non si fece attendere. Ruotò su se stesso di trecentosessanta gradi, mentre la spada, quasi un prolungamento del suo stesso braccio, fischiava bianca e perfetta, disegnando un arco nel cielo arrossato di scintille. Si trattò di un istante, pura poesia primordiale: e poi la lama andò a falciare il russo, che finì per terra in mezzo alla neve.
Un guerriero nemico, proprio di fronte a Wolf, roteò l’ascia nell’aria, facendola calare sull’elmo di un cavaliere teutonico. Il guerriero crociato crollò al suolo senza vita. Il tempo di scalciare con la gamba il cadavere e l’infedele gli si fece sotto. Occhi gialli da belva brillavano ai lati del nasale dell’elmo, la striscia di metallo lucente spaccava in due il volto in una maschera di guerra. L’uomo lanciò un urlo roco e gutturale che parve rompere il manto color piombo del cielo. Wolf, ancora una volta, alzò lo scudo mentre l’ascia dell’altro vi si schiantava con il rombo di un tuono.
Questa volta, resistette in modo perfetto al colpo ma l’imponente lama dell’avversario impattò in modo talmente devastante da affondare nel legno, rompendo la croce nera dipinta sullo scudo e riducendola a una fontana di schegge.
Mentre lapilli di polpa bianca turbinavano tutto intorno e l’uomo davanti a lui spalancava gli occhi per lo sforzo del colpo portato, Wolf fu rapido a individuare la guardia abbassata e, in quella via aerea, rimasta libera e priva di difesa, affondò la lama della propria spada con precisione chirurgica, andando a colpire l’altro, giusto sotto l’ascella, in quel punto in cui la cotta di maglia era tradizionalmente più cedevole e peggio lavorata. Un arco vermiglio schizzò tutto attorno mentre il russo lanciava un grido di dolore e il ferro faceva strame di lui.
Nell’istante esatto in cui l’uomo cominciò a urlare come un demone, per via della ferita subita, Wolf strattonò lo scudo, strappando in quel modo dalle mani dell’avversario la stessa ascia che vi si era incastrata. Poi, si liberò di quella massa di legno e metallo ormai informe e snudò la spada corta immergendola, con un movimento fluido e rapidissimo, nella gola del nemico.
Il russo lo fissò con gli occhi sbarrati. Stringeva le mani coperte dai guanti contro la gola, nel disperato tentativo di fermare il fiume che ne usciva. E in quel fiume c’erano i suoi ultimi soffi di vita.
Scie rosse arabescarono la neve mentre, intorno, la battaglia infuriava.
Wolf vide i corpi degli uomini che lottavano intorno a lui, alzando schizzi di ghiaccio e fango. Vide Thorsten finire con la gola tagliata e accasciarsi senza vita mentre gli occhi gli divenivano di vetro, vide Benno con la sopravveste bianca ormai lacera e strappata, raggiunto da una lama. Vide infine Gernot che abbatteva a colpi di martello un russo.
Tutto girava intorno a lui in una giostra impazzita: le punte di lancia, irte come denti selvaggi e contro cui gli uomini andavano a infilzarsi nell’impeto dell’assalto, i cadaveri coperti di frecce, quasi un diavolo li avesse usati come punta-spilli, l’orrore dello scempio.
Tutto quell’inutile spreco di vite, quella furia cieca e selvaggia che andava ad attorcigliarsi ai corpi rubandone l’anima. Rami ribelli di un’edera maligna, in grado di arrampicarsi ovunque per risucchiare il flusso salvifico dell’esistenza.
Scintille rosse di fuoco galleggiavano come lucciole infernali nell’aria greve del tanfo dei morti.
Qualcuno lanciò un grido spezzato.
Wolf alzò lo sguardo verso le mura in legno della città ormai annerite dalle fiamme e simili a denti scuri, stagliati contro il cielo. Il tappeto candido di neve era imbrattato da un lago carminio che si allargava fino a sommergere il bianco.
Izborsk era ormai caduta. I fratelli avanzavano come la mano di un Dio guerriero. Fu uno sterminio. In nome di Dio e della Croce.
«Avanti, avanti» gridò Kaspar von Feuchtwangen.
Wolf vide il suo maestro avanzare a falcate rapide, gli occhi attenti, i denti serrati, quasi digrignati per la rabbia. La sopravveste bianca, al cui centro stava la croce nera, emblema dei Cavalieri Teutonici, pareva diffondere un’aura soprannaturale intorno a lui, proteggendolo da qualsiasi assalto nemico. Dietro Kaspar, veniva il resto del suo gruppo. Avanzavano come un cuneo compatto, annientando le ultime sacche di resistenza. Wolf si unì al manipolo dei Teutoni perché quel grido, non appena l’aveva udito, gli aveva incendiato l’animo. Si gettò in avanti, al fianco dei suoi fratelli. Dopo qualche istante si ritrovò davanti un russo e lo colpì in pieno volto con il gomito, schiantandolo lungo la strada innevata che portava ormai al cuore di Izborsk, al centro della città pulsante di fiamme e gelo infernale.
Qualcuno gridò, un nugolo di frecce guizzò nell’aria scura ma Wolf aveva fatto in tempo a recuperare uno scudo triangolare lungo la via, e si protesse come meglio poté. Proseguì in quella folle corsa, ubriaco e ormai completamente fuori controllo.
I Teutoni erano arrivati ad annientare l’ultimo pugno di Russi. In un intreccio rabbioso di corazze ed elmi, Wolf menava fendenti, parava colpi, infilzava nemici. La testa gli pulsava in modo insopportabile, sembrava quasi che il cervello si stesse schiacciando contro la scatola cranica nel disperato tentativo di uscire e riversarsi fuori. Era un dolore insopportabile mentre la nausea saliva come un tormento infinito. Vide, davanti a sé, un altro avversario.
Si gettò in avanti nel tentativo di anticiparne le mosse. Si tuffò letteralmente su di lui. Rovinarono a terra, ma mentre l’altro tentava ancora di riprendersi, rotolandosi fra neve e fango, Wolf fu più veloce e, estratto il pugnale, lo piantò con un unico movimento nella gola del russo.
Poi, ormai esausto, allargò le braccia e si abbandonò stremato su quel pezzo di terra, sullo scudo bianco di neve e rosso del sangue dei nemici, mentre i suoi occhi grigi s’incavicchiavano nel piombo del cielo.
Guardò i corvi che sbattevano le ali lucide, gracchiando una cantilena di morte che pareva celebrare la fine di quella giornata terribile.
Il cuore sembrava uscirgli dal petto. Sentiva il respiro mozzarsi dentro di lui. E alla fine giunse il silenzio.
Allora chiuse gli occhi.
E pianse.
Tutte le lacrime che gli erano rimaste.