Due formiche rosse

A volte rompere gli schemi può servire per sentirsi un po’ più liberi. Terzo classificato nella MANUALMENTE LIVE EDITION con Consolata Lanza nelle vesti di guest star, un racconto di Giulio Lepri.

 
L’unica occasione per vedere un pugno chiuso il 28 aprile a Predappio è attendere il mea culpa durante la messa commemorativa per il DVCE. Lo sa bene Gioacchino, mentre alza la testa e guarda Italo, suo padre, battersi forte il petto, e con lui tutta la chiesa, in un borbottio collettivo quasi mistico.
Se è vero che i bambini sani odiano la scuola e amano le gite allora lui era malato, malatissimo. Avrebbe più volentieri svolto quattrocento complicatissime divisioni a doppia cifra che essere lì.
Per la comunione i suoi genitori si alzarono dalla panca. Lui no, ma era l’ultima volta. Aveva otto anni e il prossimo aprile avrebbe anche lui preso l’eucarestia.
Osservò la coda verso l’altare, e i suoi familiari, piccoli puntini con la camicia scura, che si univano a una bestia più grande: un serpente nero disteso per tutta la navata centrale.
Fu allora che notò una bambina nella fila di panche alla sua sinistra. Lo guardava con due occhi grandi e acquosi, incastrati in un viso affilato da formica.
Nell’indifferenza generale dei membri del serpente, la ragazza si alzò e gli si sedette accanto.
«Ti piace il Duce?»
Fissò la bambina sorpreso, ma sentì uno strano calore che gli ispirava fiducia: «No,» disse, «ha la mascella troppo grande».
«Perché sei qui?»
«I miei.»
«Io non ci voglio più tornare.»
«Neanch’io.»
La bambina si guardò intorno, «Vieni con me».
Lo prese per mano e lo portò in fondo alla chiesa. Nessuno sembrò accorgersi di loro. I suoi genitori erano a metà della fila e il prete non sembrava avere fretta. Il movimento del serpente era così lento da sembrare infinito. Gioacchino rabbrividì.
«Se facessimo qualcosa di tremendo,» disse la bambina, «Non ci vorrebbero mai più qui». Fece una pausa e disse: «Pisciamo nell’acqua santa».
Gioacchino impallidì.
«E se rovinassimo la tomba del duce?»
«Non è abbastanza, e poi al prete che gliene frega?»
Gioacchino guardò la fila, la sua famiglia sempre più vicina all’altare; il serpente disperdeva i suoi pezzi come api che abbandonano l’alveare.
«Dobbiamo pisciare.»
Era l’ultima occasione per Gioacchino, l’anno prossimo sarebbe stato in coda coi suoi per l’eucarestia, per sempre.
La bambina scosse la testa, alzò la gonna e sporse il sederino verso l’acquasantiera.
Gioacchino la guardò calare le mutandine con la faccia contratta per comprimere la vescica.
Intanto Italo, con il braccio destro alzato, riceveva l’ostia dal prete. «Ehi, voi!», urlò qualcuno.
Il gigantesco serpente nero si destò minaccioso, e loro lì, piccoli come due formiche senza mutande. Due niente costretti a una vita di aprili a Predappio con la camicia nera. Senza voce in capitolo, muti come formiche.
E allora pisciò.
Pisciò come mai aveva fatto prima, centrando l’acquasantiera con l’abilità di un arciere olimpico.
 
I genitori lo portarono da un esorcista, Gioacchino finse di essere posseduto dallo spirito di Stalin. Il prete dovette arrendersi allo spettro del comunismo come gli americani in Vietnam.
Sua madre pianse, ma Gioacchino non tornò mai più a Predappio.