Anima e corpo

Reagire alla perdita, ognuno a modo suo. Ma c’è differenza fra combattere per vivere e combattere per morire. Un racconto di Carolina Pelosi.

 
Ho intascato cinquecento euro, ieri.
Cinquecento euro sporchi di sangue.
E, mentre lo facevo, ho pensato a te.
Mi è venuto in mente quel giorno. Quel giorno bastardo di un anno e mezzo fa. Quando sei tornata a casa con il viso gonfio di pianto e una busta gialla in mano.
Il mio viso, adesso, è gonfio come il tuo. E brucia. Brucia così tanto che non mi frega un cazzo neanche dei soldi che mi hanno dato.
Tra un paio di mesi è il nostro compleanno, ricordi? Non perdere il conto, eh.
Che schifo sarà ricevere gli auguri di compleanno senza te. Che schifo sarà vedere una torta sola, un regalo solo, una persona sola dentro una fotografia senza sorriso.
Bruno dice che, secondo lui, quello chiederà il secondo round e io non potrò tirarmi indietro. Dice anche che quando qualcuno lo fa incazzare diventa una bestia.
Ho paura, Luce. Certe volte ho paura.
Ieri l’ho riempito di pugni, aveva la faccia devastata e sembrava volesse uccidermi. Sono uscito dalla gabbia prima che potesse riprendere i sensi e uccidermi davvero.
Il suo sangue sporcava le mie mani e io pensavo a quando ti ho tenuta stretta per una notte intera, dopo aver letto sul foglio della busta gialla che il tuo stomaco era pieno di quella roba. Mi ricordo solo che il nome cominciava per ‘m’. E che il dottore disse che non avevi molto tempo.
Il tempo è scappato via più veloce di quanto credessimo.
Cinque mesi, solo cinque mesi abbiamo avuto.
Non eri stanca, non lo sei mai stata. Avresti continuato ancora, tu, a tenere duro.
Come quando, da piccoli, giocavamo con le altalene e tu ci saresti rimasta tutto il giorno, lì sopra. Invece io piangevo perché mi seccavo e volevo andare sulle macchine a gettone.
In quei mesi il letto d’ospedale era la tua altalena, un po’ meno divertente, ma non ne volevi sapere di lasciarlo e andartene via. Per sempre.
Lo sai che ci faccio coi soldi, adesso? Dico a mamma di comprarsi una lavatrice, piange notte e giorno sulle macchie di sangue secco delle mie maglie che lava a mano, la vecchia lavatrice non funziona e sono stanco di sentirla piangere.
La prima volta che tornai a casa con l’occhio livido mi chiese cos’avessi combinato, non dissi una parola. Me l’ero andata a cercare e basta. Bruno in paese lo conoscono quasi tutti, lui mi ha dato quello che gli ho chiesto. Lui ci lavora con quelli come me.
Tutte le volte che torno mamma continua a farmi la stessa domanda e io continuo col silenzio.
Ma questa storia la sai già.
La verità, Luce, è che non è giusto che tu te ne sei andata e io sono rimasto qua.
Non me la scordo più la tua faccia in preda ai dolori atroci degli ultimi giorni.
Non me la scordo neanche quando davanti agli occhi ho un’altra faccia piena di dolore. Neanche quando quella faccia è la mia.
Un mese fa me la sono vista con un ex pugile dieci anni più grande di me. Stavo per rimanerci secco, ridotto com’ero avrei dovuto andarmene in un pronto soccorso e invece me ne restavo a terra, con le spalle schiacciate contro la gabbia arrugginita.
E allora ho capito che quello che merita davvero di sparire per sempre sono io.
Io. Non tu.
Tu che hai lottato fino all’ultimo giorno, per restare viva. E adesso sei chiusa sottoterra, lasciando a me soltanto una vecchia foto da fissare, mentre cerco di parlarti.
Mentre cerco di dirti che la tua anima è rimasta dentro questo corpo distrutto.
Dentro me.

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