Ayiana

I tamburi rimbombano, sempre più veloci.
Mi ricordano quelli che suonavamo a casa sotto l’immensa quercia, finito il raccolto nei campi di cotone. Ma sono diversi: entrano nelle orecchie, nel petto. Nel cuore.
I giovani hanno già terminato il loro rito di iniziazione, si sono sfidati a coppie con le lance di legno, legati per un piede. Hanno ululato come coyote, diventando adulti.
Ora tocca alle ragazze: escono in fila, seno nudo e fiori fra i capelli. La musica è squillante, la seguono danzando come un solo corpo.
Il nostro interprete Chinook ha spiegato al Capitano che questa è l’unica notte della loro vita in cui possono scegliere un uomo secondo la loro volontà. Giacere insieme nella foresta, ritornare all’alba da adulte ed entrare a pieno diritto nella tribù.
Gli altri non possono fare a meno di fissarle, ma sono solo dei bianchi idioti: ridacchiano bevendo whisky, fanno battute volgari che le native non capiranno mai.
Invece io seguo la danza distratto: come sempre sto in allerta, in piedi al fianco del Capitano. Ai servitori non è permesso sedere con gli altri, devo essere pronto ad assecondare ogni sua necessità.
Poi il mio respiro si ferma.
La vedo in fondo alla fila, piccola e agile. La danza, il Capitano, i miei compagni non esistono più.
Balla in modo lento, come una lince in agguato, pronta a scattare all’improvviso. Mentre le altre scelgono, gettando la loro ghirlanda di fiori al collo dei ragazzi, i suoi passi la portano di fronte al nostro gruppo.
Continua a lungo, rapita dalla musica, mentre tutte le altre catturano il loro compagno. Sento che qualcosa non va, percepisco sguardi nervosi fra gli indigeni.
Prima ancora che possa capire mi getta la ghirlanda al collo, mi prende per mano.
Non so che fare, fisso incredulo lei, poi il Capitano.
Mi tira. Scappiamo.
 
La corsa è lunga, pericolosa. I miei piedi nudi scivolano nel fango. Riesco a non cadere solo grazie alla luce della luna piena.
A volte si volta verso di me. Ride.
Come quella mattina fredda in cui l’ho conosciuta sulla spiaggia. Raccoglievo legna, è apparsa dalla foresta come uno spirito, teneva in mano un mazzo di fiori bianchi e altri ne aveva nei capelli. Non avevo mai visto nulla di più bello.
Abbiamo camminato insieme, continuando nelle nostre occupazioni. Parlavamo lingue del tutto diverse, ma abbiamo comunicato lo stesso. Due cose sole mi erano chiare: si chiamava Ayiana e per il suo popolo era una schiava, proprio come me.
 
Ora si ferma, mi spinge contro un albero. Non ride più, anzi è seria, mostra i denti bianchi. Mi bacia a lungo in punta di piedi, graffiandomi la schiena con le unghie.
Ansimo mentre cambio posto, la sollevo con la schiena contro la corteccia dura. Tuffo il mio viso fra i suoi seni che voglio divorare.
Urla come un animale, ma non di dolore. Mi vuole.
Le felci umide diventano il nostro letto. Le strappo gli indumenti di pelle, mi fermo ad ammirare la perfezione delle sue curve. Poi i nostri corpi si muovono insieme, raggiungono vette di estasi dove il tempo non esiste più.
Finché non sentiamo le urla dei cacciatori, l’abbaiare dei cani.
 
Siedo in attesa su un tronco caduto.
Dopo mesi, la mano mancante mi fa ancora prurito: il dottore l’ha dovuta tagliare per fermare la cancrena. Ho difeso Ayiana a mani nude, soffocando due Chinook nel fango prima che riuscissero a fermarmi con le frecce. Una mi ha inchiodato allo stesso albero dove l’avevo baciata.
Dal promontorio sul fiume vedo la spedizione rilsalire il Columbia river. Lo seguiranno a ritroso, fino al Missouri, per arrivare a St. Louis. Come sempre il Capitano guida dalla zattera di testa.
Ha dovuto rinunciare a casse di whisky e centinaia di pelli perché mi lasciassero andare. Del resto uno schiavo monco non serve a nulla.
«Ayiana, dobbiamo andare.» Le dico piano.
Il suo volto sfregiato è ancora più bello di prima. Mi guarda con amore, prendendomi la mano: la appoggia sulla sua pancia e sento il piccolo scalciare forte.
Annuisce, con un sorriso. Ci inoltriamo nella foresta, verso la nostra nuova vita.