Black Deer

Psicosi o realtà? O entrambe? Secondo classificato nel Capitolo del Camaleonte dedicato alla memoria di Alan D. Altieri, un racconto di Eugene Fitzherbert.

 
Klarissa Freston, Sergente Maggiore Corpo Speciale NAVI SEAL, avanzava, passo di leopardo, faccia nella polvere. Era dentro, oltre la barriera che circondava il covo di quei bastardi terroristi di No Border Army.
Lanciò uno sguardo: giungla di asfalto fuso, crateri fumanti, carni dilaniate. La guerra e quello che ne restava come un banchetto ammuffito lasciato sotto una pioggia proiettili. Le macerie del mondo che doveva essere e che non era mai stato simboleggiavano la fine della società come la volevano questi pazzi terroristi. Niente confini, solo un’enorme pianura costellata di morte, di distruzione.
Klarissa era l’unica che poteva porre fine a tutto questo, era la sua Missione.
«Comando, qui Klarissa. In posizione. Sono dentro.»
Il Comando rimase muto.
«Comando, mi ricevete?»
Fuck!
Jamming, da qualche parte.
Communication Breakdown.
Al riparo dietro un muro sbrecciato di cemento armato, putrelle come ossa rotte e arrugginite, diede uno sguardo al campo nemico. In fondo, trecento metri forse, sorgeva il Quartier Generale, edificio okkupato, riadattato, travisato. Antenne e parabole sul tetto: il jammer era lì dentro.
«Perché combatti, Klarissa?»
Klarissa si voltò al suono di quella voce. Vide dietro di sé il mondo devastato che conosceva. A terra tra i resti di detersivi, sanguinanti saponi profumati, corpi dilaniati, jeans strappati e camice insanguinate. Scosse la testa e la polvere e la distruzione tornarono, come un canale che si risintonizza spontaneamente.
«Cosa ci fai qui, Klarissa?»
Ignorò la voce e si mosse. Veloce, bassa, imminente come un temporale che sta crescendo. La sua Tightsuite da assalto le forniva i rilievi biometrici: parametri ok, mani salde, respiro normale.
Ready to kill.
A ovest il sole malato era calato, lasciando un alone insanguinato sugli spuntoni di una civiltà quasi del tutto annientata.
«Comando. Le comunicazioni sono compromesse. Proseguo con la Missione.»
Si mosse, sinuosa e letale, risoluta come una valanga in divenire, da una copertura all’altra. In mano stringeva il suo fucile Colt M6A1, con mirino olografico e puntatore laser, calcio modificato e silenziatore.
Arrivò in scivolata dietro una vecchia colonna smangiucchiata dal metallo di mille combattimenti, la schiena sul cemento ferito. Sopra di lei, il crepuscolo di un sole ormai agli sgoccioli lampeggiò, come se qualcuno avesse acceso e spento la luce velocemente. Appena sotto la soglia normale dell’udito, sentiva un bisbiglio di voci urlanti, l’eco dei morti che avevano insanguinato questa pezzo di nazione in guerra. Sentiva i rumori di gente che correva, cercava riparo. Sentiva oggetti che cadevano, lampadine che scoppiavano.
La morte che ripete se stessa in differita.
Time to die.
I suoi occhi videro due forme scure muoversi a cinque metri da lei, veloci, repentine. Il suo addestramento fu più veloce delle domande che si stava ponendo. Le braccia alzarono l’M61A:
 
Crack
Crack
Crack
Crack

 
attutiti dal silenziatore, ma non meno letali. I proiettili Winchester Super-X High Velocity mangiarono l’aria con un sibilo appena percettibile e addentarono la carne dei suoi nemici. Il sangue sprizzò, mentre i corpi volavano come birilli di pelle e vestiti.
«Klarissa, sei sicura che vuoi annientare i No Border Army? Noi siamo il futuro. E tu, cosa sei?»
La voce ricomparve dietro la sua testa. O dentro la sua testa.
There is someone in my head…
Si alzò comunque e andò a vedere se i due soldati nemici erano morti. Arrivò là dove dovevano esserci i corpi.
Non c’era niente a parte due grandi macchie di sangue, mischiato a un liquido bianco che aveva la forma, il colore e la somiglianza del latte. Sangue e Latte.
Rosso e Bianco.
Probabilmente i terroristi erano sopravvissuti, anche se aveva visto i proiettili colpire quelle sagome in pieno torace; aveva visto il geyser di sangue, prova della precisione di anni di esercitazioni.
Cosa stava succedendo?
«Sei solo una pedina, Klarissa. Non capisci? Vogliamo liberarvi da questa schiavitù.»
La voce ora arrivava direttamente dall’auricolare. «Chi diavolo sei? Come fai a sapere il mio nome?»
…and it’s not me!
«Klarissa, sai chi sono. Stai venendo proprio da me. E io ti sto aspettando…»
«Il cerbiatto Nero, Black Deer…»
«Preferisco Frannie. Non mi merito un nome così idiota e sessista solo perché ho gli occhi grandi e sembro innocente, non trovi?»
«Innocente? Sei una fottuta pazza omicida. Hai sterminato metà della mia famiglia a Milwakee e ora sto venendo per te.»
 
Klarissa si mosse ancora, never stop!
I suoi passi erano silenziosi, ma sotto le scarpe sentiva il rumore croccante di carta che si increspava, cartone che si spezzava. La polvere e i detriti che calpestava avevano la consistenza di biscotti sbriciolati, umidi. A ogni passo vedeva filtrare tra i ciottoli sbrecciati il sangue denso di chi era morto qualche momento prima.
Nel sottofondo di un vento tardo primaverile, in quel campo militare occupato dai terroristi, Klarissa continuava a udire le urla, persone moribonde, falciate senza pietà da questo branco di terroristi. Ne vedeva resti putrefatti e insanguinati, come una pessima parodia di qualche vecchio film pacifista.
Guardò in cielo alla ricerca delle stelle che l’avevano sempre consolata durante i terribili attentati che avevano distrutto tutto ciò che amava, e le vide lassù irraggiungibili, bianchi diamanti incastrati in una promessa di eternità fatta di velluto e vuoto.
Le stelle le risposero: lampeggiarono debolmente, si spensero per un momento, accecate da una fugace visione di neon spezzati e luci di emergenza attivate. Per un attimo, sentì qualcuno gridare Basta, in lontananza un pianto di un bambino.
Tears in heaven.
«Cosa mi stai facendo, bastarda? Cosa significa tutto questo?»
«Klarissa, io sto solo parlando con te. Stai sbagliando. Non siamo noi il nemico. Noi vogliamo abbattere i confini: niente nazioni, niente dogane…»
Klarissa vide altre sagome muoversi, avvolte nell’oscurità, irriconoscibili. Il suo cervello e i suoi muscoli erano ormai autonomi: ogni movimento generava uno sparo uguale e contrario, e i proiettili scavavano via la vita da tutto quello che osava respirare. I corpi sparivano, restava solo il sangue. Sangue rosso, sangue arterioso, sangue di vendetta.
«Vedi, Klarissa, noi di No Border vogliamo solo che gli uomini siano tutti fratelli e sorelle.»
«Fratelli un cazzo! Avete ucciso migliaia di innocenti. Quelli non erano abbastanza fratelli?»
«You’re missing the point, mia cara. Noi versiamo il sangue, perché l’unica fratellanza che ci interessa è quella di sangue. E non puoi farla con l’acqua fresca e i buoni propositi.»
 
A pochi metri dalla porta del Quartiere generale di No Border Army, a pochi metri dalla fine di tutto.
«Noi vogliamo una unica nazione e una sola capitale: New Dawn City.»
Klarissa percorse lo spazio che la separava dalla porta principale, sparò un paio di colpi: correva nella polvere e nei calcinacci, ma le sue scarpe facevano lo stesso rumore di quando si cammina nelle pozzanghere. Poteva quasi sentire le goccioline di acqua sollevate dalle suole sbattere sui pantaloni della sua Tightsuite. Le voci erano sempre più insistenti e si erano unite le sirene, come quelle della polizia.
Si fermò davanti all’ingresso: un’enorme porta a vetri oscurati la divideva dalla conclusione della sua Missione: uccidere Frannie the Black Deer e coronare la sua vendetta.
Guardò oltre il vetro: una ragazza, emaciata, con i capelli scarmigliati, un pantalone sformato color cachi e una maglia bianca macchiata di sangue e strappata in più punti. Scalza, la fissava con occhi spiritati, una Glock semiautomatica calibro 9 in mano.
«Frannie?»
Who’s that girl?
La ragazza sparì e al suo posto rimase solo il suo riflesso nella Tightsuit con il fucile d’assalto in mano.
Dalla porta emanava freddo e aria secca, come se si trovasse di fronte all’anima malvagia di Black Deer.
«Cosa aspetti, Klarissa? Ti stai ammirando allo specchio, puttanella del Sistema?»
Klarissa esplose: urla belluine furono sovrastate dalla rabbiosa scarica del fucile d’assalto che si abbatté sulla vetrata, frantumandola. Schegge di vetro, aria fredda, pezzi di scatole di cartone cominciarono a volare ovunque. Quelli che sembravano pisellini surgelati, filetti di pangasio e minestroni esplosero come shrapnel alimentare a lunga conservazione.
What the fuck?!
Il fucile sparò, la canna divenne rossa incandescente, le braccia di Klarissa tremavano spasmodiche nel tentativo di contenere la furia esplosiva della sua arma. Il tentativo fallì e la canna libera da contenimento si diresse verso l’alto.
Falling Sky.
Il cielo si ruppe in mille scintille, neon esplosero, acqua cominciò a cadere come sangue celeste incolore inodore e dal sapore della follia, fili elettrici si stracciarono e caddero a terra.
Klarissa ne fu quasi folgorata, mentre l’oblio la avvolgeva.
«Non ti affannare, Klarissa. Io ti aspetterò sempre.»
 
Klarissa aprì gli occhi su una barella di contenimento, mani e piedi bloccati. Cinghie di cuoio consumate, legacci da ospedale. La stanza era scarsamente illuminata, un sottoscala o un ambulatorio improvvisato. Indossava pantaloni color cachi sformati e poteva vedere la sua maglia bianca, lacera e sporca di sangue. Alla sua destra, sentì delle voci, no, era una voce, veniva da una tv. Si girò a guardare.
«…43 morti e decine di feriti, questo è stato il bilancio dell’assalto al supermercato di quest’oggi, a opera di Klarissa Freston, ex NAVI SEAL, detenuta nell’istituto psichiatrico di Saint Gideon, armata di una Glock calibro 9. La pluriomicida è stata catturata e portata in un luogo sicuro. Questo è tutto, per ora, da Karl Trevor per New Dawn City News. Che la fratellanza di sangue sia sempre con voi!»