Colpe

Finalmente lo vedo uscire dalla palestra, il borsone a tracolla, il chiarore del telefonino gli illumina di sbieco il viso. Armeggia con l’altra mano in tasca fino a che sento il beep del telecomando. Mentre lancia la borsa sui sedili dietro gli punto il coltello alla gola.
«Che cazzo…» cerca di voltarsi procurandosi un taglio sul collo.
«Stai fermo, stronzo, o ti sfregio il tuo bel visetto!»
Lo spingo verso il parco, so di fargli paura, sono molto più grande e più grosso di lui. E ancora non mi ha riconosciuto.
Lo fermo dietro il chiosco dei gelati, chiuso. Lo costringo a girarsi e a guardarmi in faccia. La luce fioca del lampione poco più avanti dovrebbe bastare a rivelare la mia identità.
Nulla. Dev’essere il più idiota della banda, gli altri hanno capito subito.
«Brutto figlio di puttana, tremi, ah? Sei un bastardo vigliacco senza i tuoi amichetti!»
Lo butto a terra, lo immobilizzo, gli tiro indietro le braccia e gliele lego. Lo giro verso di me e gli ficco un fazzoletto in bocca prima che inizi ad urlare.
Recupero il coltello e gli sfilo pantaloni e boxer immobilizzandogli le gambe.
Si piscia addosso.
«Che schifo!» mi alzo, mi viene da vomitare.
Almeno gli altri hanno cercato di difendersi alimentando la mia rabbia, rinsaldando il mio odio ma questo ha solo paura.
Avvicino il coltello all’uccello, pezzo di carne moscio e inutile.
Trema così forte da sobbalzare, il suo urlo è un mugugno che lo sta strozzando.
Non voglio che perda i sensi prima di capire perché.
«Se stai buono non ti faccio nulla» mento. Appoggio il coltello a terra affinché mi creda.
«Se ti tolgo il fazzoletto dalla bocca mi giuri di non fiatare? Se ci provi sei morto!»
Lui fa cenno di sì. Glielo tolgo.
«Sai chi sono?»
«No»
«Ti dico solo un nome: Liliana»
Nello stesso momento in cui realizza, sbianca e inizia a urlare. Lo zittisco con una sberla e gli rificco il fazzoletto in gola. Lui si agita, cerca di liberarsi, ha definitivamente capito che ha di fronte l’odio puro.
Non mi importa più di nulla, prendo il coltello, glielo taglio senza staccarlo del tutto, sviene. Gli tiro due sberle perché senta cosa ho da dirgli. Le ultime parole che sentirà prima di andare all’inferno.
«Tu sei il più fortunato, i tuoi amici ho aspettato che morissero dissanguati. Tu no, e sai perché?» non aspetto che provi a rispondere «perché sei l’unico che non voleva, l’unico a dire basta quando hai visto che stava per morire»
Un ultimo colpo alla giugulare, mi alzo di scatto per evitare lo spruzzo di sangue.
Ci ho messo cinque anni a trovarli. Quattro settimane a organizzarmi. Tre giorni a ucciderli tutti.
Manco solo io. Io che non ho voluto che denunciasse. Che ho avuto paura della gente.
Che l’ho giudicata per come era vestita, perché si era ubriacata, perché si era comportata come una puttana.
La mia bambina, Lilli. Trovata appesa a un cappio dopo pochi mesi che si era salvata dai mostri.
Uccisa da suo papà.