Emissioni

Giunture metalliche, vapori, esalazioni, ruggine e in mezzo a tutto questo una nuova nascita. Vincitore della SPECIAL STEAMPUNK EDITION, un racconto di Manuel Piredda.

 
Il neonato aprì gli occhi al centro di un crocicchio di tubi che s’intrecciavano l’un l’altro come un metallico sistema venoso, quasi ogni conduttura era erosa in più punti e, dalle guarnizioni sciolte, gocce di olio nero e caldo gli colavano sulla pelle come fossero una guaina di lattice.
Di tanto in tanto, come a voler riscaldare la piccola creatura, delle valvole di sfogo poste da qualche parte in quella giungla di tubature arrugginite lasciavano andare le loro esalazioni tiepide, aumentando la temperatura e l’umidità della sala.
 
Appena presa coscienza dei suoi dintorni, il bambino iniziò a contorcersi in preda ai conati; per istinto afferrò il tubo che gli attraversava l’esofago e cominciò a tirare, sentendo lo stomaco contrarsi per il riflesso faringeo.
Il condotto era abbastanza lungo da arrivargli allo stomaco e dalla sua estremità usciva in modo lento ma costante una poltiglia rosa macilenta nella quale era ancora presente della peluria grigia.
 
Il piccolo tossì e si mise a quattro zampe. Iniziò a gattonare, esplorando l’ambiente, che scoprì essere sferico e ricoperto dello stesso liquido nero e vischioso che gli imbrattava mani, gambe e pancia; diede qualche strattone alle tubature flessibili che pendevano dal soffitto sinché una non cedette, causando l’incidente.
Una luce rossa e intermittente si accese, illuminando i getti di vapore modulati dalle valvole in un fischio assordante e bitonale, un suono apocalittico che spaventò il bambino al punto da farlo unire a quell’assurdo pianto meccanico.
 
Ci vollero diversi minuti prima che la camera inferiore si aprisse, lasciando colare verso il basso l’olio rancido e, con esso, il piccolo ormai privato d’ogni punto d’appoggio.
Scivolò di stanza in stanza, attraverso tubi ingrassati e condotti divorati dalla ruggine, tra sbuffi di fumo e stanzoni bui dove occhi predatori sembravano nascondersi in ogni angolo coperto di tenebra, ma alla fine capì quale fosse la sua destinazione finale: la botola, una finestrella da cui scolava l’olio nero e da cui entravano luce bianca e un’aria asciutta, inodore, ben diversa dal vapore acqueo che aveva respirato fino a quel momento.
 
Prese fiato, chiuse gli occhi e si spinse oltre la piccola apertura che si spalancava sotto di lui, cadde per quella che gli parve un’eternità, poi sbatté il sedere al suolo. Si riempì i polmoni di quell’aria nuova, poi, spaventato, si lasciò andare a un pianto disperato. Le sue urla furono sovrastate dalla sirena, ora non più attutita dalle pareti d’acciaio, un suono così imponente e simile al suo pianto da fargli dimenticare la paura.
 
Aprì gli occhi, affondò le mani insozzate nel terriccio brullo e si guardò intorno, osservando la distesa arida che si estendeva fino all’orizzonte.
Sopra di lui, inginocchiato su sei immense zampe arrugginite, un leviatano d’acciaio ululava il suo canto meccanico facendolo risuonare per tutto il deserto.
Il piccolo protese una mano verso il mostro che lo sovrastava e articolò la sua prima parola: «mamma.»

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