Gelido vuoto

La vendetta, la rabbia, la perdizione in questo racconto di Salvatore Stefanelli selezionato nel Laboratorio di Minuti Contati.

 
Le luci delle auto scorrono come torrenti impazziti sotto di me. In lontananza lampi azzurri illuminano la notte. Presto il vento batterà ogni tetto della città, ululando tra le mura, accarezzando i miei brividi impazienti. Osservo le finestre dividere due mondi, donando una irrazionale sicurezza a chi vive al di là del vetro.
In questo momento mi sento il dio della morte, la sua vendetta.
Legata una fune a una colonna di cemento, scavalco il parapetto e guardo nel vuoto. Due piani sotto c’è la mia preda, ignara di quale destino l’aspetta. Eppure, dovrebbe attenderselo dopo quello che ha fatto. Questa notte s’infrangeranno le sue certezze, la paura presto si colorirà di rosso, e io sarò lì, artefice e spettatore, a godere di un tale spettacolo.
Le mani scivolano lungo la corda, portandomi giù sino al terrazzo di Alberto Ghini, il giudice che ieri ha liberato l’assassino di mia figlia.
Luisa aveva sedici anni, era la gioia fatta persona ed è morta. Abbandonata sul ciglio di una strada, le vesti strappate, il sangue che si era raggrumato tra le sue cosce mentre le dita stringevano una croce. In testa ancora la busta di nailon che l’aveva soffocata mentre cercava di urlare, sul collo i segni dello strangolamento. Il medico legale non aveva saputo dirmi quale delle due era stata la causa della morte. Sull’asfalto la pioggia batteva forte, le luci delle volanti spandevano un blu stonato tra le gocce. Quando arrivai, chiamato da un collega, mi chinai ad abbracciare la mia bambina prima che la portassero via, i suoi occhi erano morti ancor prima che le si fermasse il cuore.
Io sono per il perdono, se chi ha colpa paga e si pente. Ma il giudice Ghini non ammetterà mai di aver sbagliato.
Così come non lo ha ammesso l’assassino; stamani ho goduto nello spezzargli le dita una a una, nell’evirarlo, soffocando le sue urla con uno straccio conficcato sino in fondo alla gola.
Pensavo di sentirmi meglio dopo la sua morte, ma non è stato così, anzi: il dolore si è tramutato in rabbia e la rabbia in un odio glaciale. E ora sono qui. Sulla strada dabbasso una volante attende che passi la notte, per concedere il riposo ai suoi occupanti.
Forzare la finestra è uno scherzo. Il lampo illumina il riflesso della mia anima sul vetro e non la riconosco: non sono mai stato io questa, tuttavia solo in questo stato penso possa adempiere al mio destino. Nell’entrare sento delle voci provenire dalla destra, nell’altra stanza qualcuno sta ridendo, sono le risa di una bambina e di una donna, mentre un uomo finisce di raccontare una barzelletta. Ci sa fare con le parole, anche troppo, persino con quelle sbagliate, Giudice Ghini, però la sentenza è stata emessa; l’ha emessa lei stesso, nel momento in cui ha deciso per la non colpevolezza.
Mi nascondo e attendo, i minuti passano lenti, sin troppo. La piccola va finalmente a dormire, ed è quasi mezzanotte. Poco dopo la madre torna in cucina. Sono su di lei, con la mano alla bocca, impedendole di gridare. Cerca di divincolarsi mentre Ghini scatta verso me. Si arresta di colpo davanti alla mia calibro nove.
Mi ha riconosciuto ma sembra non capire il perché. «Liberando l’assassino di mia figlia, l’hai uccisa due volte. Non meriti di vivere ancora».
«Ho una bambina piccola, che dorme di là. Fallo almeno per lei: non ha nessuna colpa».
«Nemmeno mia figlia ne aveva!». Colpisco alla nuca la donna con il calcio della pistola, un colpo deciso, facendola svenire. «Ora siamo solo noi due e voglio vederti in ginocchio implorare perdono, prima di ucciderti».
«Io ho fatto solo il mio dovere».
«In ginocchio!» sussurro in un grido soffocato. «Se si sveglia anche tua figlia, faccio una strage. Chiedi perdono, pezzo di merda!».
«E di cosa dovrei farmi perdonare?» chiede, mentre si china al suolo. «Non c’erano prove sufficienti e sono stato obbligato dalla legge a lasciarlo andare».
«Sii? È così che pensi di cavartela? Allora sappi che io sono obbligato dal cuore a fare questo». Punto la pistola alla sua testa…
«Papà, chi è questo signore?».
«Io sono la morte…».
Il sangue esplode in schizzi che volano verso l’alto. Ghini si è gettato su sua figlia nel gesto disperato di salvarla. Il proiettile lo ha colpito alla spalla qualche centimetro sotto la clavicola.
«Lei no! ti prego…».
«È tardi per le preghiere!». Sparo ancora, un colpo tra gli occhi: unica pietà per lei, dallo sguardo spaventato e confuso, prima che comprenda cosa stia accadendo. Ora un colpo al cuore di tua moglie, perché non provi il dolore di una madre. E adesso a te l’ultimo proiettile, Giudice, ora che hai perso tutto e sai cosa si prova, perché non sono una bestia ma un giustiziere e non godo nel vederti soffrire.
 
«Papà, ti piace uccidere?».
«Non ci può essere piacere nella morte, piccola mia: la morte ti cambia e fa male, altrimenti è follia».
«Allora, perché porti la pistola?»
«Per far rispettare la legge: è il mio lavoro».
«Ti prego, papà, non uccidere nessuno. Non voglio che diventi qualcun altro: ti voglio bene così come sei».
«Va bene, piccola. Te lo prometto».
 
Le luci scorrono come torrenti impazziti, sempre più carichi di blu elettrico. Il vento porta via le lacrime, mentre le mani pesano del sangue del tuo assassino. Non mi sento più un dio. Apro le ali e volo nel vuoto di te.