Interrogatorio

Aldo entrò nella stanza dell’interrogatorio. Il sospettato aveva spostato la sedia contro il muro e sedeva chino con le braccia in mezzo alle cosce.
A quanto diceva l’appuntato Colli, non aveva voluto parlare neanche con il suo avvocato. Se si era chiuso in sé stesso, sarebbe stato difficile tirargli fuori una confessione.
Aldo posò la scheda sul tavolo che slittò appena sulla superficie laccata. «Si avvicini pure. Non la obbligherò a parlare, ma almeno può ascoltarmi meglio.»
L’uomo scosse appena la testa.
Non era un granché, ma era pur sempre un primo passo. Aldo si sedette e sbirciò il foglio. «Marco Valenti, giusto?»
L’uomo annuì. Sotto il profilo dell’occhio destro la pelle era gonfia e lucida. Come se avesse pianto fino a poco prima. Che fosse il primo segno di razionalizzazione?
Aldo batté le nocche sul tavolo. La ragione gli diceva di utilizzare tutto ciò che aveva imparato negli anni di studi sul circondare il fulcro del trauma, ma l’istinto gli stava indicando un’altra strada.
«Perché ha ucciso quel bambino?»
L’uomo rimase immobile. Il respiro era lento e controllato, ma in fondo a esso c’era un rantolo nervoso. Aprì la bocca. «Non… Non c’è… un motivo.»
Bene. «Ah no? Girati verso di me, su.»
L’uomo sembrò pensarci, poi afferrò la sedia e la fece strusciare verso il tavolo.
Ottimo.
La sua testa si sollevò con una lentezza esasperante. Gli occhi azzurri emersero dalle sopracciglia rade e sporgenti. Simili alla visiera di un cappello.
Lo sguardo dell’uomo salì fino a soffermarsi su un punto sopra i capelli di Aldo.
Che stava fissando? Aldo si girò. Dietro di lui c’era solo il muro asettico della stanzetta. «Soffre di qualche malattia, signor Valenti?»
«Ehm, no, non proprio.»
Non proprio… Non la migliore delle risposte. Ma malgrado ciò, quell’uomo non gli sembrava pazzo, solo profondamente sotto shock. «Cosa intende?»
L’uomo fece una smorfia, come se avesse masticato un frutto marcio. Deglutì. «Lei crede nel… soprannaturale?»
Ecco, avrebbe dovuto mettere in stand-by il verdetto sulla pazzia. «Sinceramente no, ma faccia pure come se ci credessi.»
L’uomo abbozzò un sorriso traballante che si incrinò in un ghigno nevrotico. Portò le mani sul tavolo. «Ci sono dei numeri.» Le dita erano violacee e piene di pellicine mangiucchiate. «Numeri che nessuno può vedere, a parte me.»
«Numeri? Numeri di che tipo?»
«Solo numeri. Ma variano da persona a persona.»
Aldo mantenne un’espressione neutra. Poteva essere schizofrenia, o più probabilmente un disturbo bipolare.
«Ognuno ne ha uno.» Continuò l’uomo.
«Dove?»
«Lì.» Indicò un punto sopra la testa di Aldo. «Lei, ad esempio, ha un 2, ma la maggior parte delle persone ha uno 0.»
Che fosse tutta una messa in scena per farsi dare l’esame psichiatrico? Doveva pressarlo di più. «E lei, lei ha un numero?»
«Sì, un 1.»
«Ho capito. E rappresenterebbero qualcosa, questi numeri?»
L’uomo cercò di far riaffiorare il sorriso, ma questa volta si distorse subito in un tremolio spasmodico delle labbra. «C— ci ho messo molti anni per capirlo… Ma sì. Hanno un significato ben preciso.»
Aldo si sporse appena. «E sarebbe?»
«Le persone che quell’individuo ucciderà nel corso della sua vita.»
Una fitta di agitazione tirò lo stomaco di Aldo. Cosa aveva detto? Il suo numero era… I corpi bruciati di Marta e Gina gli lampeggiarono davanti agli occhi, come se non fossero passati 8 anni da quel maledetto giorno.
L’uomo si prese la testa tra le mani. La voce era flebile. «Passato o futuro, il numero, alla fine, è sempre corretto.»
Aldo si alzò di scatto. Impossibile. Come aveva fatto? Si era informato su di lui? Sull’incidente? No, non c’era modo che sapesse. Doveva essere stato un caso. Ma…
L’uomo cominciò a singhiozzare. «I- io non volevo… Era solo un bambi—» Il pianto gli ruppe le parole in gola. «Ma dovevo…»
Cosa stava dicendo? Aveva dovuto uccidere il bambino? Aldo sgranò gli occhi. «Che… che numero aveva, quel bambino?»
L’uomo calmò i singhiozzi e alzò la testa dal tavolo. Gli occhi velati di lacrime. «7,941,460,043.»