La poesia dipinta

Matsuo continuava a fissare il quadrato di seta davanti a sé, ancora completamente intonso, i pennelli asciutti, inusati. Gli occhi andavano dalla seta alla poesia scritta sul muro, dalla poesia agli schizzi, strappati e buttati a terra. Ormai non li leggeva nemmeno più, quei soli dodici ideogrammi, affilati come un coltello, che però lui non riusciva a trovare la strada per trasformarli in dipinto.
 
Una settimana prima un collezionista, vestito con uno splendido abito tradizionale, gli aveva commissionato un quadro, purché fosse l’adattamento dei versi di Bashō, il monaco poeta. Intrigato dall’idea, rispose subito di sì. Gli chiese se desiderava qualcosa in particolare, e l’uomo annuì, per poi recitarla: “In cielo un lampo. / Nel buio della notte, / stridere degli aironi in volo.”
«E’ un suo haiku? Non lo conoscevo.»
«Sì, uno dei migliori in assoluto. E mi piacciono anche i suoi quadri, credo che lei sia proprio adatto a tradurlo in un’immagine.»
«Quei lampi sarebbero perfetti per un quadro astratto.»
«No. Come vede, sono un anziano signore molto tradizionale. Vorrei che dipingesse su seta, una calligrafia di quei versi con immagini nello stile di Buson, per rimanere in tema.»
«Non è il mio stile, potrei fare meglio con la mia tecnica.»
«Forse è vero, eppure preferirei che provasse in quel modo. L’incontro della tradizione con la modernità non potrà che essere interessante. Lei ha lo stesso nome del poeta, non può che essere un segno favorevole.» Lo guardò negli occhi, si incoiò a mani giunte e in un sussurro disse: «La prego.» Fu così che Matsuo si lasciò convincere.
 
Quando però si era messo a pensare a come dipingerlo, la sua mente rimase nera come la notte prima del lampo.
Fatto sta che per penetrare quei versi avrebbe dovuto viverli, e lui non era mai stato fuori in una tempesta, di notte, a guardare il cielo. Così i bozzetti uscivano di maniera, insulsi, spenti.
Ma quella sera poteva provare a vivere qualcosa di simile. Era già mezz’ora che schioccavano fulmini talmente grandi e vicini da rischiarare la stanza. Quasi senza accorgersene, indossò un impermeabile e uscì nella notte, entrando e camminando nel vicino bosco di querce.
Dopo un primo fulmine, la quiete. Notte di luna nuova, cielo coperto, non si vedeva davvero nulla. «Sarà stato lo stesso nella notte dell’altro Matsuo», pensò, e rimase sul sentiero in attesa di un lampo.
 
Quando arrivò, rischiò di morire dalla paura. Alla luce, si disvelò il volto di una donna, proprio davanti a lui. Il sangue gli si gelò, più che una donna era sicuro che fosse un fantasma! Ma lei lo saluto con garbo, scusandosi di essere apparsa così all’improvviso. Gli disse che stava facendo un’escursione e si era persa; non aveva idea di dove si trovasse e gli chiedeva di aiutarla.
Matsuo fece del suo meglio per superare lo shock. Le disse di seguirlo e si voltò per tornare a casa. Sennonché tanto era il buio che la dovette prendere per mano per accompagnarla. Era una mano piccola, dalla pelle setosa, calda anche nel freddo della notte. Iniziò così a desiderarla, ancor prima di scoprirne la bellezza, alla luce dello studio.
Mangiarono insieme. Poi lei gli sorrise, lui le sorrise, e fu così che fecero l’amore sdraiati su un futon di fronte alla seta del dipinto, candido memento del vuoto. Matsuo si sentì vibrare, trascinato dall’amore come un uccello in aria, uno di quegli aironi che prima non riusciva a capire, ma che adesso sì, che poteva.
Appena lei si addormentò, si mise a dipingere, ora sapeva com’era un’illuminazione improvvisa, penetrare il vuoto in un momento! Con poche pennellate tratteggiò la notte, con poche altre una montagna. Dedicò ore a dipingere due aironi in volo, finché non si sentì troppo stanco per continuare: ormai albeggiava e si mise a dormire vicino alla donna misteriosa, riempendosi del suo odore e del suo calore.
Si svegliò la mattina, con la luce del sole ormai alta. Lei non c’era più. La cercò ovunque, prima di tornare nello studio, deluso. Guardò il quadro; fu così che vide che ora gli aironi erano tre: il terzo completamente bianco, come quella penna che era rimasta sul futon.