La regina folle

Ducato del Friuli, inverno 834 d.C.
 
1° giorno
Mi appoggio alla parete della grotta. Quaranta braccia più sotto, dove il bosco lascia spazio ai primi cumuli di roccia, un uomo tiene il piede appoggiato su un masso. Scendono copiosi fiocchi di neve, il respiro dei cavalli crea nuvolette di vapore nel mattino, ma il re degli Unni tiene lo stesso la camicia aperta in sprezzo al freddo pungente. I suoi occhi sottili come aghi di pino mi lanciano uno sguardo carico di sfida: un intero esercito di barbari contro donne e bambini asserragliati quassù, disarmati e con scorte di cibo per soli quaranta giorni.
«Mia regina.» Il vecchio Goffredo sta gobbo a causa del peso dell’usbergo. «Venite dentro, è pericoloso stare qui, potrebbero scoccare delle frecce.»
Non riesco a togliere gli occhi di dosso da Attila. Un cieco terrore mi si aggroviglia intorno al cuore. «Una regina senza regno altro non è che una donna qualunque.» Mi stringo lo scialle intorno al collo. «Il mio nome è Vera. Solo quando scenderemo sarò di nuovo la tua regina.»
Goffredo mugugna. «Scenderemo. Il conte di Antro cavalca in nostro soccorso. Confidiamo in Dio.»
 
19° giorno
Grida spezzano la notte. Abbandono il giaciglio e controllo i bambini, ma tutti dormono.
Era un sogno, o c’era davvero qualcuno che urlava con la voce del diavolo?
Le urla riprendono. Appoggio la mano sulla fredda parete di roccia e cammino al buio fino all’imboccatura. Le guardie tendono le braccia, ma le respingo: devo vedere.
Tre roghi ardono in mezzo all’accampamento degli Unni: le fiamme salgono ad accarezzare il cielo scuro come la pece. Dai roghi provengono suoni che nulla hanno di umano: riesco a vedere i volti liquefatti e le gambe ridotte in cenere.
Calore acido mi sale lo stomaco, mi piego e vomito.
Le mani di una delle guardie mi cingono le spalle, ma rifiuto quell’atto di pietà.
Non sarò più una degna regina longobarda, ma comunque non sono una donnetta qualunque.
«È il conte di Antro, con i suoi figli.» La voce del soldato è tremante. «Li hanno presi.»
Ecco ciò che resta della mia retroguardia: ora siamo soli ad aspettare che finisca il cibo, poi Attila avrà vinto.
 
28° giorno.
«Maestà.» Il ragazzo mi tira per la manica, alzo la testa e mi sveglio da un sonno inquieto. La pancia mi brontola, al posto dello stomaco ho la vescica di un maiale.
«Il mio nome è Vera.»
Il giovane tentenna, poi si inchina. «Perdonatemi, dovete intervenire, due uomini sono stati colti in fragrante a rubare le ultime scorte di grano.»
Lascio che mi conduca attraverso i meandri bui di questa tomba, fino a quando raggiungiamo due soldati con in mano una torcia. Ai loro piedi due miserabili stanno in ginocchio chiedendo pietà.
Il sacco di grano è lì, mezzo vuoto.
Lo tocco col piede. I ladri tengono lo sguardo basso, non osano guardarmi.
Odio tutto questo. Odio il grano che scarseggia, odio gli Unni e odio Dio per averci abbandonato.
Raccolgo il sacco e lo trascino con me fino all’imboccatura della grotta. Le guardie attonite non riescono a fermarmi mentre getto giù l’ultima nostra scorta di cibo: tanto moriremo, quindi tanto vale anticipare i tempi.
Attila è sotto, mi fissa, il grano ai suoi piedi splende colorato dai riverberi sanguigni dell’alba.
La risata pazza mi risale di nuovo la gola. «Re degli Unni, flagello di Dio. I tuoi uomini avranno fame, ti regalo questo grano. Mangiatene tutti, con i miei omaggi.»
Svengo.
 
49° giorno.
I soldati calano le scale di legno: io e la mia gente possiamo scendere. Eravamo in mille, siamo rimasti meno della metà.
L’esercito di Attila aveva fame davvero e senza volerlo, nella follia, ho dato loro l’idea di avere scorte di cibo per molti mesi ancora: solo un pazzo getterebbe via il cibo durante un assedio, e Attila ne era ben consapevole, così stanotte ci hanno lasciato le loro luride tende, qualche cavallo morto e cadaveri di soldati appestati.
Io sono Vera, la regina che ha salvato il suo popolo per pura fortuna, in uno sconsiderato impeto di follia.
Torniamo a casa.