L’ultimo raccolto

Emil fissa la porta d’acciaio e lo stomaco gli si stringe per la paura. La penombra del corridoio d’accesso al bunker non fa che accrescere l’angoscia dell’attesa.
Sua madre gli sta vicino. Ha il fucile a tracolla. Si è piegata sulle ginocchia e lo guarda con un misto di apprensione e fiducia. Gli appoggia le mani sulle spalle e dice: «Ora tocca a te. Ricordi le regole?»
Emil annuisce. Le ha ripetute fino alla noia. «Corri veloce. Guardati sempre intorno. Prendi tutti i floricarne che puoi. Se scorgi un asag grigio, scappa e torna al bunker.»
«Bravo, piccolo mio» sorride sua madre. «Tuo padre sarebbe fiero di te.»
Emil è orgoglioso per quelle parole: gonfia il petto e per un po’ dimentica la paura.
«Ora devi andare» annuncia la madre. Si alza, imbraccia il fucile e si avvicina alla porta. Inserisce la chiave nella serratura e gira la maniglia. «Due minuti, ricorda.»
A Emil tornano in mente le parole di suo padre: sono ciechi ma hanno un olfatto portentoso. Ti individuano in due minuti. Poi non hai più scampo. «Mamma, ho paura» si lascia sfuggire, prima che lei apra la porta.
«Non devi averne. Sei forte, come tuo padre.»
Emil sospira. Adesso il suo ruolo è fondamentale per la famiglia. Ha una grande responsabilità. Non so se ce la faccio, pensa. Mi prenderanno.
«Io sarò con te» gli fa coraggio sua madre. Spalanca la porta.
Tutto è grigio, dal cielo alla terra. E la smorta monotonia è rotta solo dal viola dei globi sugli steli, sparsi a perdita d’occhio intorno al bunker. Emil annusa l’aria, puzza di acre disfacimento.
Sua madre punta il fucile oltre la soglia. Il vento s’insinua nell’ingresso del bunker e fa stormire le sterpaglie e i lunghi steli dei floricarne. «Pronto?» dice a Emil, mostrandogli l’orologio appartenuto a suo padre. Poi gli porge un sacco di iuta.
Non si è mai pronti ad affrontare gli asag grigi; Emil, questo, lo sa benissimo, ma annuisce convinto. «Pronto.»
«Da questo momento hai due minuti. Corri!»
Emil scatta come un fulmine e si dirige a testa bassa verso il campo di floricarne. Le sterpaglie gli graffiano le gambe, lo strato di cenere sul terreno lo rallenta, ma lui non molla, resiste al dolore.
Si ferma vicino a un cespuglio di piante e riprende fiato. Ora è in mezzo al nulla. Lancia occhiate veloci sperando di non notare alcun movimento. Ha di fronte i globi viola, succosi e profumati, e si prepara a raccoglierli.
«Un minuto e quaranta secondi!» gli urla sua madre.
Afferra il primo globo e tira, ma non viene via. Stringe i denti e il frutto si stacca. Apre il sacco e lo lascia cadere dentro. Passa al successivo. Viene via più facilmente. Il raccolto sta andando bene.
«Un minuto e dieci secondi!»
Ne prenderò altri dieci, pensa. Altri cinque floricarne sono suoi.
«Hai solo sessanta secondi, Emil!»
«Ho quasi finito!» la rassicura.
Ancora un paio di frutti.
Fatto!
Stringe il cordino e chiude il sacco, ma si accorge che è troppo pesante.
«Quaranta secondi! Vieni via!»
Emil spinge sulle gambe e si tira dietro il raccolto. Fa una fatica del diavolo. Ci metterà troppo.
«Venti secondi! Lascia il sacco e corri!»
Emil non vuole farlo. Non posso deludere papà. È tardi. Ha capito che non arriverà in tempo al bunker.
«Corri!» grida disperata sua madre. Punta il fucile verso di lui.
Gli viene da piangere. Non ha intenzione di mollare proprio ora, ma gli asag arriveranno presto.
«Tempo scaduto!»
Coglie un movimento con la coda dell’occhio. Si ferma. Lascia andare il sacco.
«EMIL!»
Un asag compare proprio davanti a lui. È più orribile di quanto immaginasse. Gli occhietti opachi sono ipnotici e i denti sporgenti incutono terrore. Il cuore di Emil galoppa impazzito. Non riesce a sopprimere i tremiti.
Uno sparo. L’asag sguscia dietro di lui e ne compare un altro. E un altro.
I piccoli mostri balzano sopra di lui. Il panico gli stringe la mente in una morsa d’acciaio. Emil si dibatte e riesce a scargliarne via un paio. Ma alcuni artigli gli hanno già penetrato la carne. Il veleno sta già entrando in circolo. «Mamma!» urla. E s’incammina verso di lei. Le forze lo abbandonano. Presto sarà il loro cibo. E sarà contagioso.
«Fermo!» gli intima sua madre. Piange.
«Aiutami!» Si inginocchia, stremato.
«Perdonami. Non doveva finire così.»
Il clangore della porta che sbatte è una condanna.