Nebbia a colori

[:it]

Un serial killer che si muove nell’ombra attaccando la libertà di pensiero. Un racconto di Alberto Priora.

 
Fabio si accende la terza sigaretta, e i riccioli di fumo si intrufolano nella nebbia come lembi d’olio nell’acqua.
«Allora, hai finito?» la voce, che già esprime tutto il suo nervosismo, sembra non avere neppure il coraggio di propagarsi per un paio di metri.
Franz tende la mano destra «No. Passami il giallo.»
«Ma quanto ti manca? Siamo qui da troppo tempo.»
«Mi manca quello che mi manca. Se devo fare un disegno di merda, tanto valeva non venire.»
«Forse era meglio.»
«Incùlati. Mi dai il giallo o no?»
Fabio fruga nella sacca e prende una bomboletta; controlla il colore con la scarsa luce del lampione, mezza soffocata dal velo bianco che è andato a coprire la notte, e poi la tende verso Franz. «Tieni, ma fai in fretta. Non mi piace qui.»
Franz agita lo spray, e un rumore metallico si agita nell’aria.
Fabio, invece, si guarda attorno. Fissa le sagome che vede nella nebbia, cercando di capire a chi o a cosa appartengano. Nessuna si muove, segno che si tratta sempre di oggetti, minacciosi solo per chi decide di avere paura.
I rumori giungono castrati, come se la loro origine fosse più lontana di quella reale: un cane che abbaia, il motore di un’auto, la sirena di un’ambulanza, lo sferragliare di un treno. La loro origine come da un Universo differente e distante.
Fabio spegne la sigaretta sotto il piede e solo dopo si rende conto che ne aveva fumato neppure la metà.
«Cazzo» mormora.
«Che c’è adesso» domanda Franz con in sottofondo il sibilo della vernice che si distende sul muro.
«Niente. Sono nervoso.»
«Fammi finire, poi mettiamo la firma e ce ne andiamo. Solo qualche minuto ancora.»
Lontano, verso la circonvallazione si vede un bagliore blu, come quello delle auto della polizia. Perde forza nella nebbia fino ad agonizzare e a sparire.
Se li sorprendessero mentre dipingono quel muro sarebbe un vero casino, ma almeno sarebbero dei poliziotti e non un fottuto assassino.
«Argento?» chiede a vuoto Franz.
Fabio non risponde.
«Mi dai l’argento?»
Franz dipinge stando in cima a una scala, altrimenti il graffito sarebbe troppo in basso e nessuno lo vedrebbe mentre si passa in strada. Qualche stronzo ci potrebbe anche mettere i bidoni della spazzatura davanti e allora addio lavoro.
«Ma ci sei o no?» dice Franz alzando la voce.
«Adesso te lo do.»
«Smettila di preoccuparti e aiutami. Altrimenti davvero non finisco più.»
Fabio fruga di nuovo nella sacca; le bombolette si urtano e tintinnano. Per qualche motivo bastardo gli sembra che il rumore sia più forte del necessario, che voglia tradire la loro presenza.
«Va bene. Basta che ti sbrighi.»
«Finisco e ce ne andiamo. E vada a fare in culo quello stronzo del killer.»
«Eh?»
I giornali lo hanno chiamato il Killer dei graffittari. Ne ha già uccisi quattro. E due di loro Franz e Fabio, che si firmano F&F, li conoscevano pure. Ormai è da un mese che la cosa va avanti e le ipotesi si sono sprecate: dal benpensante difensore dei muri altrui che si è improvvisato giustiziere, all’artista invidioso, al protettore che vedeva infastidita la zona in cui faceva battere le sue ragazze. C’è anche chi ha parlato di membri di una setta, un commentatore idiota che confonde satanisti e writer solo perché ha visto su qualche muro un diavolo stilizzato e non ne ha capito il significato.
Resta il fatto che ci sono stati quattro morti. Quattro artisti che lavoravano sui muri della città e che sono stati uccisi con armi affilate e lasciati a spargere il loro sangue ai piedi delle loro opere.
«Forse crede di essere un artista anche lui» aveva detto Franz qualche sera prima, quando erano passati da quelle parti per vedere se il muro andava bene.
«Non scherzare» aveva risposto Fabio.
«Giusto, magari è uno del comune che ha visto che non ci può sconfiggere con le parole perché noi siamo più forti.»
E anche se tra i writer c’era tensione, Franz aveva voluto comunque uscire e andare a dipingere, perché aveva in testa una cosa e la voleva esprimere. Così eccoli lì nella nebbia fredda a spruzzare vernice.
«Hai finito?»
«La pianti di rompere le palle? Non ho finito.»
«Hai detto che avresti finito dieci minuti fa.»
«Devo ripassare i bordi. Altrimenti è uno schifo. Non la metto la nostra sigla su di uno schifo.»
Fabio sente dei passi e si gira cercandone il punto di origine. Trattiene anche il respiro, ma i passi non li sente più.
«Vado a pisciare. Quando torno ce ne andiamo comunque. Non voglio restare un minuto di più.»
«Vai, vai.»
A una decina di metri di distanza c’è un albero che nella nebbia assomiglia più a un’idra della mitologia che a una pianta. Fabio si avvicina, abbassa la zip e piscia contro il tronco la birra che si è fatto prima di uscire.
Sta sgocciolando, quando sente un forte rumore di metallo attraversare l’ovatta che lo circonda. Riconosce una scala che cade.
«Cazzo, Franz» dice, avviandosi di corsa.
La scala è a terra e a terra c’è pure Franz, disteso di pancia sul terreno. La luce dei lampioni basta per vedere che da sotto di lui si allarga una macchia rossa e che il corpo è scosso dagli spasmi. Una successione di gocce si allontana lungo il marciapiede.
«Dio, Franz» dice Fabio guardandosi attorno, cercando qualcuno e avendo al tempo stesso paura di trovarlo. E forse all’angolo c’è una sagoma in movimento, perché intravede qualcuno che si allontana con passo tranquillo.
«Aiuto» cerca di urlare Fabio con una voce che non gli esce. «Aiuto» ripete mentre il suo sguardo sale sul graffito che Franz aveva appena finito; perché lo aveva finito e aveva messo la loro sigla in alto a sinistra, proprio sopra il profilo urbano stilizzato e la grande figura di un uomo grigio dagli occhi spiritati che brandisce un coltello e domina i cittadini resi piccoli come tante formiche, mentre due figure ridenti gli sparano contro un arcobaleno colorato. «Aiuto» urla Fabio, che è ormai solo davanti a un murales che voleva sublimare la realtà e la paura. Se lo ha fatto, lo ha fatto solo per pochi minuti.[:en]Fabio si accende la terza sigaretta, e i riccioli di fumo si intrufolano nella nebbia come lembi d’olio nell’acqua.

— Allora, hai finito? — la voce, che già esprime tutto il suo nervosismo, sembra non avere neppure il coraggio di propagarsi per un paio di metri.

Franz tende la mano destra —No. Passami il giallo.

— Ma quanto ti manca? Siamo qui da troppo tempo.

— Mi manca quello che mi manca. Se devo fare un disegno di merda, tanto valeva non venire.

— Forse era meglio.

— Incùlati. Mi dai il giallo o no?

Fabio fruga nella sacca e prende una bomboletta; controlla il colore con la scarsa luce del lampione, mezza soffocata dal velo bianco che è andato a coprire la notte, e poi la tende verso Franz. — Tieni, ma fai in fretta. Non mi piace qui.

Franz agita lo spray, e un rumore metallico si agita nell’aria.

Fabio, invece, si guarda attorno. Fissa le sagome che vede nella nebbia, cercando di capire a chi o a cosa appartengano. Nessuna si muove, segno che si tratta sempre di oggetti, minacciosi solo per chi decide di avere paura.

I rumori giungono castrati, come se la loro origine fosse più lontana di quella reale: un cane che abbaia, il motore di un’auto, la sirena di un’ambulanza, lo sferragliare di un treno. La loro origine come da un Universo differente e distante.

Fabio spegne la sigaretta sotto il piede e solo dopo si rende conto che ne aveva fumato neppure la metà.

— Cazzo — mormora.

— Che c’è adesso — domanda Franz con in sottofondo il sibilo della vernice che si distende sul muro.

— Niente. Sono nervoso.

— Fammi finire, poi mettiamo la firma e ce ne andiamo. Solo qualche minuto ancora.

Lontano, verso la circonvallazione si vede un bagliore blu, come quello delle auto della polizia. Perde forza nella nebbia fino ad agonizzare e a sparire.

Se li sorprendessero mentre dipingono quel muro sarebbe un vero casino, ma almeno sarebbero dei poliziotti e non un fottuto assassino.

— Argento — chiede a vuoto Franz.

Fabio non risponde.

— Mi dai l’argento?

Franz dipinge stando in cima a una scala, altrimenti il graffito sarebbe troppo in basso e nessuno lo vedrebbe mentre si passa in strada. Qualche stronzo ci potrebbe anche mettere i bidoni della spazzatura davanti e allora addio lavoro.

— Ma ci sei o no? — dice Franz alzando la voce.

— Adesso te lo do.

— Smettila di preoccuparti e aiutami. Altrimenti davvero non finisco più.

Fabio fruga di nuovo nella sacca; le bombolette si urtano e tintinnano. Per qualche motivo bastardo gli sembra che il rumore sia più forte del necessario, che voglia tradire la loro presenza.

— Va bene. Basta che ti sbrighi.

— Finisco e ce ne andiamo. E vada a fare in culo quello stronzo del killer.

— Eh?

I giornali lo hanno chiamato il Killer dei graffittari. Ne ha già uccisi quattro. E due di loro Franz e Fabio, che si firmano F&F, li conoscevano pure. Ormai è da un mese che la cosa va avanti e le ipotesi si sono sprecate: dal benpensante difensore dei muri altrui che si è improvvisato giustiziere, all’artista invidioso, al protettore che vedeva infastidita la zona in cui faceva battere le sue ragazze. C’è anche chi ha parlato di membri di una setta, un commentatore idiota che confonde satanisti e writer solo perché ha visto su qualche muro un diavolo stilizzato e non ne ha capito il significato.

Resta il fatto che ci sono stati quattro morti. Quattro artisti che lavoravano sui muri della città e che sono stati uccisi con armi affilate e lasciati a spargere il loro sangue ai piedi delle loro opere.

— Forse crede di essere un artista anche lui — aveva detto Franz qualche sera prima, quando erano passati da quelle parti per vedere se il muro andava bene.

— Non scherzare — aveva risposto Fabio.

— Giusto, magari è uno del comune che ha visto che non ci può sconfiggere con le parole perché noi siamo più forti.

E anche se tra i writer c’era tensione, Franz aveva voluto comunque uscire e andare a dipingere, perché aveva in testa una cosa e la voleva esprimere. Così eccoli lì nella nebbia fredda a spruzzare vernice.

— Hai finito?

— La pianti di rompere le palle? Non ho finito.

— Hai detto che avresti finito dieci minuti fa.

— Devo ripassare i bordi. Altrimenti è uno schifo. Non la metto la nostra sigla su di uno schifo.

Fabio sente dei passi e si gira cercandone il punto di origine. Trattiene anche il respiro, ma i passi non li sente più.

— Vado a pisciare. Quando torno ce ne andiamo comunque. Non voglio restare un minuto di più.

— Vai, vai.

A una decina di metri di distanza c’è un albero che nella nebbia assomiglia più a un’idra della mitologia che a una pianta. Fabio si avvicina, abbassa la zip e piscia contro il tronco la birra che si è fatto prima di uscire.

Sta sgocciolando, quando sente un forte rumore di metallo attraversare l’ovatta che lo circonda. Riconosce una scala che cade.

— Cazzo, Franz — dice, avviandosi di corsa.

La scala è a terra e a terra c’è pure Franz, disteso di pancia sul terreno. La luce dei lampioni basta per vedere che da sotto di lui si allarga una macchia rossa e che il corpo è scosso dagli spasmi. Una successione di gocce si allontana lungo il marciapiede.

— Dio, Franz — dice Fabio guardandosi attorno, cercando qualcuno e avendo al tempo stesso paura di trovarlo. E forse all’angolo c’è una sagoma in movimento, perché intravede qualcuno che si allontana con passo tranquillo.

— Aiuto — cerca di urlare Fabio con una voce che non gli esce. —Aiuto — ripete mentre il suo sguardo sale sul graffito che Franz aveva appena finito; perché lo aveva finito e aveva messo la loro sigla in alto a sinistra, proprio sopra il profilo urbano stilizzato e la grande figura di un uomo grigio dagli occhi spiritati che brandisce un coltello e domina i cittadini resi piccoli come tante formiche, mentre due figure ridenti gli sparano contro un arcobaleno colorato. —Aiuto — urla Fabio, che è ormai solo davanti a un murales che voleva sublimare la realtà e la paura. Se lo ha fatto, lo ha fatto solo per pochi minuti. [:]