Non di sola morte si può morire

Essere o non essere? E cosa essere? Cosa desiderare? Cosa fare? Cosa diventare? Una domanda con una risposta diversa per chiunque se la ponga. Direttamente dalle selezioni del LABORATORIO, un racconto di Francesco Nucera.

 
Voglio riaccendere la fiammella sopita sotto le ceneri della quotidianità. Non si contano più i giorni che ho passato senza un sussulto; ho sempre avuto l’impressione di buttare via il mio tempo, e forse era solo su quello che avevo ragione.
Ci ho provato, giuro che l’ho fatto.
Ho lasciato le compagnie che mi traviavano, tagliato i capelli, tolto i piercing, sposato una brava ragazza, generato te, comprato un’automobile, adottato un cane e acceso un mutuo. Ma non è servito, sono rimasto sempre io nascosto da tanto nulla.
Per un po’ ci ho creduto: riuscivo a dormire sonni senza sogni, ma il passato è tornato e mi ha travolto.
Non ho avuto nessuna folgorazione, non c’è stato nessun messia; ho solo ascoltato la canzone che aveva le chiavi dei miei ricordi.
Da allora tutte le notti sogno le chiacchierate interminabili al gusto di birra e marijuana, dopo la doccia mi passo la mano tra i capelli e quando sono nervoso mordicchio la cicatrice che ho nel labbro. Sono arrivato a scordarmi di venirti a prendere a scuola e rimpiango gli anni che sto facendo buttare a tua madre.
Poi, un mese fa, ho trovato la via proprio dove l’avevo lasciata; abbandonata sul diario di un adolescente sognatore, tratteggiata con una matita durante le ore di filosofia, ispirata dagli occhi spenti di un uomo che prima di me aveva smesso di essere.
“Se vivrò da fallito, morirò da eroe.”
Ero depresso in quei giorni e forse lo sono ancora, ma quelle parole rappresentano una promessa fatta a me stesso.
Non ti chiedo scusa, perché se riuscirò nel mio intento sarai tu a gioire.
Se domani mattina non mi troverai nel mio letto e, aprendo la finestra, sentirai l’odore della cenere, allora vorrà dire che ce l’ho fatta e da quel momento toccherà a te far cambiare tutto.
Ti lascio quest’ultima lettera perché tu possa capirmi.
Ti voglio bene.
Papà.
 
«Mammaaaa!»
Giulia si svegliò di soprassalto richiamata dalle urla della figlia. Si mise a sedere sul letto e si voltò dalla parte di Daniele; era vuota. Poggiò i piedi a terra e corse nella stanza di Stefania.
«Che succede amore mio, hai fatto un brutto sogno?»
La figlia era seduta a terra, le ginocchia al petto e il volto rigato dalle lacrime. «Papà» si limitò a dire, porgendole un foglio. Giulia lo prese in mano e si mise a leggere. Ogni parola era una sassata che demoliva le certezze di una vita. Tutte le bugie che si era raccontata in quegli anni scomparvero; nella sua mente rimase solo l’insofferenza di quell’uomo che aveva smesso di toccarla, di parlarle e che si era chiuso in se stesso.
Con gli occhi arrossati, Giulia camminò fino alla finestra, impugnò la maniglia e la girò. Su Roma aleggiava una nube nera e nell’aria si sentiva odore di fumo. Si sporse e vide il custode del palazzo parlare con dei passanti.
«Mario!» lo richiamò urlando.
L’uomo alzò la testa e fece due passi in direzione della strada «Che c’è?»
«Che sta succedendo?»
«C’è stata un’esplosione…» Il custode sollevò l’indice e indicò un punto imprecisato oltre l’orizzonte.
Giulia si sentì mancare, barcollò e si lasciò cadere accanto alla figlia.
«Che è successo, mamma?» chiese lei.
La donna portò le mani al volto e si strofinò gli occhi. Guardò sua figlia attraverso lo spiraglio tra le dita; doveva proteggerla. Inspirò, abbozzò un sorriso, ma una lacrima tradì la sua tristezza. «Papà ce l’ha fatta» disse abbracciandola.