Punto e a capo

La stanghetta del cursore lampeggia al termine della frase che chiude il libro.
Lo scrittore incrocia le braccia e si appoggia allo schienale cigolante della poltrona, occhi arrossati fissi sullo schermo e cicca di sigaretta che pende dalla labbra. Un’ultima inalata e affoga il mozzicone in mezzo agli altri suoi simili schiacciati nel posacenere.
Per alcuni minuti lo scrittore non fa altro che rimanere in silenzio, ripetendo tra sé e sé le ultime righe del libro. Qualcosa non lo convince, ma non riesce ad afferrare cosa.
Non il finale in sé. No, quello l’ha deciso anni fa ed è certo della sua qualità, della perfezione con cui va a risolvere ogni singolo evento che lo precede in un preciso gioco a incastri. Né sono i personaggi, così vividi sulle pagine e ancor più nella sua testa da ritrovarsi in più di un’occasione a chiacchierare con loro anche per le stanze di casa o mentre lavora. Forse il narratore, allora? Quell’onnisciente, alle volte persino invasivo, verrà criticato da più d’uno al momento della pubblicazione, già lo sa; così come tuttavia sa che non esiste scelta migliore per raccontare la sua storia. E non lo pensa per superbia: la sua è esperienza diretta.
Gli occhi gli cadono su una colonna di plichi impilati con ordine a lato dello schermo del computer, ognuno identificato da un post-it riportante una cifra che va da uno a…
Lo scrittore aggrotta la fronte mentre si sforza di ricordare il numero esatto di revisioni a cui ha già sottoposto il libro.
Ma in fondo che importanza ha? Nessuna.
L’ha sentito dire anche durante un’intervista radiofonica a un suo collega: per il primo libro hai tempo tutta una vita, per il secondo non più di due anni, che altrimenti o l’editore si scorda chi sei o lo fa il pubblico, il che è anche peggio.
Di nuovo, gli occhi dello scrittore si spostano verso un altro punto della stanza e, come a voler criticare quel ricordo, si soffermano sul calendario a foglio singolo appeso alla parete. Una serie di cerchi rossi segna i termini di consegna di alcuni concorsi a cui lo scrittore avrebbe voluto partecipare, ma che, uno dopo l’altro, si è trovato costretto a dover rinunciare.
Scuote la testa, dandosi dello stupido al pensiero dei compromessi a cui sarebbe dovuto scendere per adattare il suo lavoro a quelle date. Come poteva anche solo considerare l’idea di una simile violenza? No, non avrebbe fatto l’errore di tanti suoi pseudo colleghi interessati più al proprio nome su una copertina anziché all’arte.
In fondo quella è la decisione presa anni fa, il giorno della prima lettera schiacciata sulla tastiera: mai dare alle stampe un testo incapace di soddisfare appieno lui stesso sia come autore che come lettore, un testo in grado di superare non solo la prova del mercato, bensì quella ben più ardua del tempo. Che importa il numero di revisioni o i cambi di stile o l’aggiunta di nuovi dettagli?
Perché sì, lui sa qual è il suo scopo ultimo.
Sa cosa non funziona al suo testo.
Lo scrittore accende la stampante e, tra ronzii e vibrazioni, apre uno dei cassetti della scrivania e tira fuori il blocco dei post-it accompagnato da una biro. Le labbra gli si curvano in un sorriso stanco mentre con il mouse trascina la barra laterale verso l’alto. In fondo, ha tutta la vita ancora davanti.
E ancora una volta, raggiunta la prima pagina, si rimette a leggere e a correggere e a migliorare.
Capitolo uno…