SOLO CARNE

Neanche stanotte ho dormito.
Sono passati quanti, duecento giorni? Duemila uomini?
Ho perso il conto.
Ho perso la mia famiglia.
Ho perso tutto.
 
La luce dell’alba filtra dalle prese d’aria del rimorchio. La puzza di sudore e di urina di ventidue ragazze satura l’ambiente, impregnando i materassi e le coperte di un odore acre e vomitevole. Nessuna di loro parla la mia lingua, e soprattutto nessuna ha voglia di parlare. Di cosa dovremmo conversare? Le nostre vite, se così possiamo chiamarle, sono nelle loro mani ormai. Non esiste più nulla di nostro.
Il portellone posteriore si apre con un rumore sordo, metallo arrugginito che fatica a smuoversi. Due energumeni con passamontagna e divisa militare si fanno strada tra i letti, scrutandoci come carne da macello pronta per essere venduta. Le ultime arrivate si coprono il corpo nudo con gli stracci che a stento si possono definire lenzuola. Il più grosso viene verso di me. Non mi preoccupo di farmi vedere come sono. Nuda, livida e gonfia, come un corpo che sta morendo. A lui non importa. A lui, a loro vado bene così.
Mi afferra per i capelli e mi trascina giù dalla branda, urlandomi contro parole incomprensibili. Il cranio esplode in una vampata di dolore, un ciuffo unto si stacca dalla testa. Le ginocchia sfregano contro il pavimento in legno marcio e le schegge si conficcano nella pelle. Fatico a rialzarmi, mi appoggio a terra con i polsi segnati, le mani senza unghie.
Lui ride di gusto.
Col mitra mi punzecchia la schiena e il culo, spingendomi fuori dal camion. Non ho le forze di reagire. Sono un sacco vuoto, solo spazzatura da buttare.
Appena fuori, il sole mi acceca e mi avvolge in una stretta di fuoco. Le ferite sulle cosce, non ancora rimarginate, bruciano come se avessi tizzoni ardenti premuti sulla carne viva. Tre auto parcheggiate e quattro uomini aspettano la loro merce, in piedi, fieri e orgogliosi. Esseri fatti di muscoli e soldi, più che di carne e sentimenti. Da sinistra a destra c’è il sudamericano, l’asiatico, l’europeo e l’africano. Come in ogni buon mercato, la roba viene vista prima di essere comprata. Assaggiata, provata, annusata e toccata.
Si avvicinano. Le loro mani trasudano banconote, valigette colme di disprezzo per noi donne.
Non ho idea di chi debba soddisfare oggi o se sarà lo stesso uomo per un po’ di tempo. Non so dove mi trovo ora e non so nemmeno dove mi trovavo un mese fa. Da quando sono stata rapita ho perso la cognizione di tutto, del tempo, dei luoghi. Ovunque fossi… ero sempre all’inferno.
L’africano mi evita, troppo sciupata. Cosa che invece sembra intrigare l’asiatico che non ha staccato gli occhi dal mio pube per un solo istante. È lui a fare la prima mossa.
Solleva il mio viso con movimenti delicati, osserva i miei occhi privi di lacrime, infossati nel volto di uno scheletro che cammina. La sua giacca grigio topo non può nascondere l’anima che lo guida. Un’anima cruda. Nessun gesto candido può celare l’orrore che abita in lui.
Mi dice qualcosa, poche sillabe nella sua lingua, non capisco. Si volta verso gli altri e solleva la valigetta. Il contante viene recuperato e l’asta si conclude.
Ora sono sua.
Accanto a me, la ragazzina di circa dodici anni viene ceduta all’europeo. Non ho il coraggio di guardare il viso straziato di quella povera bambina. Non sopporto le sue grida disperate quando viene presa e trascinata a forza nell’auto. Non riesco a non vedere il corpo dell’europeo che le si avvinghia sui sedili dietro, mentre l’autista parte. Non riuscirò più a levarmelo dagli occhi, come altri centinaia di incubi. Mio marito ucciso e mia figlia stuprata fino alla morte. Non riesco a non pensare che quella ragazzina farà la stessa fine.
Forse non ora.
Forse non qui.
Ma ovunque sia, quella ragazzina smetterà di vivere. Con l’immagine di un mostro stampata negli occhi di un corpicino martoriato e ucciso.
Non ce la faccio più, non voglio andarmene così.
Sono stanca, le gambe non mi reggono, quando faccio pipì il bruciore è così intenso da farmi impazzire. Sanguino da ogni buco del corpo dove hanno infilato di tutto. Non ce la faccio…
L’asiatico mi spinge in auto, sdraiata sui sedili dietro. Sopra teli di iuta per non sporcare. Per non macchiare la macchina del mio sangue, del mio sudore, di me. Lui si siede al posto del passeggero. L’autista, un altro asiatico imbellettato, si gira a fissarmi. Da un tiro a una sigaretta e con uno schiocco me la getta in faccia, iniziando a ridere.
Altre sillabe incomprensibili.
L’auto parte. Fuori dal finestrino c’è uno strapiombo. Centinaia di metri in caduta libera, di salto nel vuoto. Il volo verso il paradiso per chi vive un inferno al giorno. La destinazione senza mappa che indichi la via per la libertà.
Con l’ultimo scatto di vita assalgo il guidatore, prendo il volante e sterzo nel nulla. L’auto sfonda il guardrail e vola.
 
Neanche stanotte ho dormito.
Sono passati quanti, duecento giorni? Duemila uomini?
Ho perso il conto.
Ho perso la mia famiglia.
Ho perso tutto.
Ma almeno, ho scelto io come morire!