Tre mesi sono abbastanza

Leggo la mail di quel galoppino del mio capo e già mi girano. È una lista di compiti, vediamo… uno, due… ma! Sono le stesse cose che mi ha detto di fare ieri. Cos’è, gli ho detto che non ci stavo e allora me lo scrive? No, non ce la faccio più. Sbatto il mouse sulla scrivania e i miei due colleghi fanno un salto. «Ora basta! Alberto m’ha rotto le palle.»
E che fanno, i due pecoroni? Mi danno ragione? “Siamo con te”? Macché, abbassano la testa, muti. Peggio per loro, non è chinandosi che si ottiene qualcosa.
 
Va bene, andiamo a prendere il toro per le corna. Che poi, parliamo di questo toro. Gli fai il muso duro e ci mette un secondo a tornare un vitellino.
Attraverso l’ufficio e spalanco la porta. Me lo trovo alla sua bella scrivania, con la sua bella cravattina da Bocconiano fresco di studi. «Buongiorno» mi fa.
«Si può sapere che mail mi hai scritto?»
«Il… il planning della settimana.»
«Ti ho già detto che non li faccio. Non puoi costringermi.»
«Ma sono da fare.» E sotto sotto ci sta prendendo gusto, lo sento. «Non puoi rifiutarti.»
Ah, qui lo volevo. Gioca la carta del capo, e ora lo metto al muro. «Ti sembra che una mail come quella sia il modo giusto di comunicare con un tuo sottoposto?»
«A me sembra…» Alberto si ferma, scaccia l’idea con la mano. «Ascolta. Non ho tempo per queste cose, sto aspettando una telefonata. Quindi per favore esci e—»
«Eh no! Adesso che fai, mi liquidi?» Sbarbatello arrogante. Me li bevo, quelli come te. «Scommettiamo che se dico quello che ho in mente poi mi ascolti?»
Alberto rimane a fissarmi per tre secondi buoni. «Va bene» sospira, «dimmi.»
«Questo che fai è mobbing.»
«No che non lo è.» E lo dice pure con fare annoiato, il damerino.
«Cos’è, vuoi dei testimoni?»
«Non dubito che tu ne abbia.» E ora c’è un tono schifato, nella sua voce. «È da tre mesi che sono qui, e mi sono già fatto un’idea di che persona sei.»
Se sta per darmi del paraculato lo rovino, giuro. Questi neolaureati arrivano qui e pensano di poter mettere i piedi in testa a tutti. Ma il ragazzo è furbo, ora l’ho capito, non passerà il limite con parole che lo inchioderebbero.
«Tre mesi che son qui» continua, «e perché sia mobbing ce ne vogliono almeno sei. Sei mesi di atti persecutori reiterati.» Adesso sorride apertamente.
«Vedo che ti sei informato.»
«Certo.»
Cos’è questa, se non una dichiarazione di colpevolezza? Sta giocando con me, è chiaro. E se non sapessi di avere le spalle coperte, avrei già abbassato la testa anch’io, come i miei colleghi.
«Sentimi bene» abbasso la voce, perché capisca che lo scherzo ha da finire. «Tre mesi sono abbastanza per chi so io. È da quando sei arrivato che mi lamento di quanto mi fai lavorare. E tu continui, e continui.» Punto il dito sulla sua bella scrivania lucida. «Io c’ho Rovelli, al sindacato. È mio nipote. Mi ha detto di fargli sapere se ti darai una calmata oppure no.»
Alberto mi guarda, mi odia. E soprattutto ha finito di sorridere.
Mi allontano dalla scrivania. «Quindi oggi lo chiamo, Rovelli. Dimmi tu cosa devo riferire.»
Suona il telefono.
Alberto non mi stacca gli occhi di dosso, la mano si allunga verso la cornetta e quando la trova risponde. «Sì.» Pausa, e ancora sta a studiarmi. «Bene. Salgo subito.»
E ancora, è la sua mano a cercare il resto del telefono per mettere giù. Capisco che è successo qualcosa, ma non so che cosa.
Alberto si alza e si avvicina. «Era il Direttore Amministrativo. Mi ha detto che posso salire da lui.»
«Il… Direttore Amministrativo?»
«Vado a firmare.»
«A firmare…?»
«Per il mio trasferimento.» Annuisce. «Da domani lavorerò in qualche distaccamento. Devono ancora dirmi dove, basta che sia lontano da qui.»
Va verso la porta, senza nemmeno prendersi la giacchetta. Si volta verso di me. «Lavorare con te è stato un inferno. Di’ questo, al tuo sindacalista.»