Un albero all’anno

Quando mi sono svegliato, c’era una nebbia fitta.
Mi sono alzato in fretta, impaurito. Ho indossato l’armatura, sistemato fodero e spada, senza lavarmi, né mangiare. Dolore alla schiena. Maledetta umidità.
Odio la nebbia: negli anni, i demoni mi hanno attaccato ben sei volte fra le sue spire.
 
Il tempo scorre, monto la Guardia
Recito l’antica litania, percorro il camminamento senza allontanarmi troppo dalla Torre, guardingo.
Sembra tutto tranquillo, ma è proprio in questi momenti che colpiscono.
La vecchia foresta dell’Est al di là del Confine è una massa nera, spettrale. Sembra respirare vapore, lenta, malevola, come un vecchio drago addormentato.
Per farmi forza, contemplo la strada che si snoda dalla Torre in mezzo ai prati verdi, verso Occidente. Porta alla Capitale. È casa, civiltà, guardarla mi riempie di gioia, perché rappresenta lo scopo della mia esistenza, da sempre.
Costeggio il muro per il giro di ronda. È lì che ho piantato i miei alberi, dritti e ordinati.
 
Le piante crescono, difendo il Confine
Uno e Due sono possenti, cresciuti così tanto da toccarsi. Sono i decani, vecchi quanto la mia Guardia. Ogni mattina prego abbracciandoli, perché mi possano difendere. Il primo anno ho deciso di piantare Uno, per marcare lo scorrere del tempo. Avere qualcuno di cui occuparmi.
Tocco le tibie del primo demone, ancora inchiodate alla corteccia.
È apparsa una mattina, persa nella foresta orientale: una ragazza giovane, innocente. Era ferita, mi ha chiesto aiuto: ingenuo, l’ho aiutata. Amata. Poi, lo specchio mi ha rivelato la sua vera natura. L’ho crocifissa nel cortile della Torre, strappandole il cuore a mani nude, piangendo. Quando il tempo ha lavato via la sua carne maledetta, ho conservato le ossa, a monito perenne.
 
I demoni arrivano, non mi fanno paura
Continuo il giro, ricordo.
L’anno di Quindici mi hanno attaccato in forze. Un’armata di orchi sputata dalla foresta nera: cavalcavano lupi, e bestie immonde, volanti, che vomitavano acido sulle mura della Torre. Ero forte, allora. Ho resistito all’assedio per quasi cento giorni. Ho trasformato i rami dei miei amati alberi in sante frecce con cui mi difendevo. Poi sono riuscito a distruggere il loro accampamento.
Ventitre è piccolo, scarno, povero di foglie. L’anno in cui l’ho piantato c’è stata la siccità peggiore. Mi assomiglia: resiste da sempre, come me. Quella volta sono arrivati in mezzo al fuoco che ha divorato la foresta, spiriti rossi e crudeli. Sento prurito al braccio sinistro, dove i demoni hanno morso le mie carni.
 
Nessuno di loro passerà, né ora né mai
Trentasei mi rammenta la comparsa del venditore ambulante. Sapevo di dovere stare attento, ma la voglia di parlare con qualcuno dopo tanti anni è stata troppo forte. Mi ha fatto ubriacare per imprigionarmi, poi si è mostrato com’era: un perfido rettile di forma umana. Solo l’astuzia e la fortuna mi hanno salvato.
Ho piantato l’albero proprio nel punto in cui l’ho trapassato con la spada.
Termino il giro con Quarantadue. Mi arriva appena alla vita: è ancora giovane, piccolo. L’ultimo che ho piantato questo inverno.
Un timido sole spunta sulle cime degli alberi a Oriente: la nebbia sparisce, trasformandosi in rugiada.
Rientro nella Torre, affamato. Ma qualcosa, un istinto, mi trattiene. Torno indietro.
Macchie nere appaiono sulle foglie cosparse di gocce. Sembra una ruggine, come quella che fa diventare matto chi mangia il pane di segale cornuta.
Corro a vedere gli altri alberi, uno dopo l’altro: tacche polverose, su ogni foglia, sui piccioli.
I miei alberi! Tutti questi anni che ho passato da solo, a difendere il Confine. Vani, inutili.
Sono tutti malati. Tutti!
Devo arrestare la malattia: impugno la spada, taglio fronde, rami. Più ne elimino, più macchie si formano su quelli rimasti.
Vado avanti finché posso, poi crollo in mezzo alle foglie scure. Dolore al braccio sinistro, non posso più combattere. Singhiozzo appoggiato al tronco nodoso di Uno, mio vecchio compagno.
Il vento che passa fra le foglie morte non è altro che una cupa risata.