Veglia

Li sento.
Loro non lo sanno, ma io li sento.
 
Mio padre sta raccontando ancora – madonna santa, sarà la milionesima volta, alla milionesima infermiera – di quella volta che insieme, in barca, abbiamo pescato un lucioperca di dodici chili. Lei ride, più cortese che divertita. Ha una bella risata, profonda, la immagino con un volto giovane, i capelli lunghi raccolti, le tette grandi, le occhiaie sotto gli occhi.
Mamma, invece, tace. Ha finito le parole dopo aver finito le lacrime. Sarà diventata vecchia, i capelli grigi, uno dopo l’altro, come i grani del suo rosario. La sento muoversi ogni tanto, la sedia trascinata sul linoleum – ha sempre trascinato le sedie, con papà una volta ci hanno perfino litigato e insomma, una volta la sedia lei, una volta il piscio sull’asse del cesso lui, il lavoro, le partite di calcio ogni giorno, alla fine erano già in crisi prima che quella testa di cazzo mi investisse con la sua moto di merda, le strisce pedonali ormai invisibili a duecento metri dal lampione più vicino, la luce blu dell’ambulanza, la luce bianca delle mie palpebre.
Vorrei dire qualcosa, mamma smettila di trascinare la sedia, papà cambia repertorio, signorina infermiera vero che porta almeno una terza? Ma niente, nessun suono esce dalla mia gola, nessun movimento delle mie pupille, nessuna smorfia delle mie labbra.
 
Però li sento.
Li sento passare le ore i giorni e le settimane attorno a me, trascurare le loro vite, sperando in un miracolo. Pregando per un miracolo.
Voglio urlare, dire loro di firmare quel cazzo di modulo, lasciare i miei organi a uomini e donne che ne farebbero un uso migliore e tanti saluti mondo. L’ho fatto scrivere, su quella cazzo di carta d’identità che nel mio paese dimenticato da Dio a dispetto delle invocazioni pie della domenica mattina e di quelle bestiali la domenica pomeriggio è ancora di carta: c’ho fatto scrivere che voglio donare gli organi, ho dovuto spiegarlo tre volte all’addetto dell’anagrafe. Lo sanno, i miei. Ma non ne vogliono sapere.
Che poi, voglio dire, non avrei nemmeno bisogno di qualche arcangelo vivente che tenda al limite il codice penale dello Stato per portarmi in una qualche Svizzera, in qualche clinica che pare uno chalet alpino, o magari una struttura che si affaccia su un lago, o che so io, non ci sono mai stato in Svizzera, la immagino piena di banche e con le mucche che raccolgono da terra le loro merde.
Basterebbe staccare la spina, come piace dire alla gente. Un gesto rapido, indolore, che liberi me, i miei e questo letto d’ospedale.
 
Ma intanto un nuovo grano di rosario, un altro lucioperca, mio fratello che si fa vedere sempre meno, mia sorella che ogni tanto passa a darmi un bacio sulla fronte e a inumidirmi la guancia. Il mio coma sta distruggendo anche la mia famiglia. Ormai quel modulo nemmeno lo tirano più fuori, le infermiere e i dottori, tanto non c’è verso. La vita è vita, dice mia madre esprimendo concetti che più che suoi sembrano quelli del parroco. La vita è vita, dice mio padre col suo forte accento, lui che è uno all’antica, un po’ rozzo, cuore d’oro ma mentalità chiusa da valligiano, che si apre con le infermiere, ma non con gli infermieri, ché non li capisce, e nemmeno con i dottori, ché non si fida.
 
Lo sento, che mi vogliono bene.
Lo so, che mi vogliono bene.
La vita è vita, certo: vorrei dire a mia mamma e a mio papà che la mia è stata bella e che ora non devono sprecare la loro.