Vendetta indiana

Chi l’avrebbe detto? Di certo non io. Nossignore, non io. Almeno non venti o anche trenta anni fa.
Era più semplice la vita a quel tempo, o almeno, così sembrava.
Bastava inventarsi una scusa qualsiasi per avere delle terre da coltivare, da pascolare le bestie. O da affittare al governo, perché no. Ci avrebbero fatto un campo di addestramento per l’esercito, una prigione, o chissà cosa. L’importante era che pagassero. E pagavano, diavolo se pagavano.
Di cosa facevano nelle mie terre non mi è mai importato, mi bastava vedere i dollari.
Mie, poi… non erano mie. Erano della gente che viveva qui dall’alba dei tempi. Ma a nessuno importava dei musi rossi.
Avevamo stipulato un accordo con uno dei capi Cherokee, o come diavolo si chiamavano, per tracciare i confini.
Noi qui, loro lì.
Non è durato molto. Un giorno, tre giovani cacciatori si spinsero oltre il confine, una vedetta li vide, li raggiunsero e li fucilarono.
Lo so perché uno di quei cavalleggeri, Tom Benfor, era un mio buon amico e me lo raccontò una di quelle tante sere al saloon a bere un po’ di bruciabudella.
Li ammazzarono perché avevano varcato il confine.
Non ricordo nulla di quella sera. E non perché avessi bevuto troppo, no. Perché non mi importava di quella notizia. Una chiacchiera, nulla più.
Ovviamente, ai Cherokee importò. Tre giovani cacciatori uccisi dall’uomo bianco.
Si vendicarono.
Almeno, quella fu la versione ufficiale. Nell’agosto 1836, una carovana di mercanti di Pittsburgh non arrivò mai a destinazione. Furono trovati i resti solo la primavera successiva. Nessuno sa cosa accadde veramente, ma tutti diedero la colpa agli indiani. Era comodo e conveniente per tutti, sissignore. Io per primo ricordo chiaramente di aver offerto un giro di whisky a tutti, quando il governatore approvò il nuovo decreto che confinava quelle scimmie rosse ancora più in là, lontani da noi e dalle nostre nuove terre.
Eppure non mollavano. Sconfinavano, cacciavano nei nostri territori, si ostinavano a coltivare la nostra terra, e praticare i loro riti e le loro sciamanerie nei luoghi che dicevano fossero sacri alla loro gente.
Poi trovammo la soluzione definitiva.
L’alcol.
Quelle scimmie rosse non avevano mai bevuto un goccio in vita loro. I dottori dicevano che proprio non erano adatti a reggere l’alcol, che il loro corpo non ne sopportava gli effetti, non erano abituati.
Oh, diavolo, come si riducevano con due o tre bicchieri di bruciabudella.
Dove non arrivarono i nostri fucili, arrivò il whisky scadente degli irlandesi.
In pochissimo tempo, tutto lo spirito battagliero dei giovani fu affogato in qualche barile di brodaglia.
E io ridevo.
Oggi non posso più ridere. Mi fa male il petto. Tossisco sangue, e mi brucia ogni respiro.
Il dottore dice che è il fumo del tabacco, che mi resta poco da vivere. Mio figlio è morto lo scorso inverno, anche lui tossendo sangue. Dicono sia il fumo del tabacco. Quel tabacco che stiamo coltivando sulle terre che abbiamo rubato agli indiani, che oggi tutti fumano.