Vita in appello

«Vada, signorina, ci rivedremo quando si sarà rinfrescata le idee.»
 
Non avete idea del numero di echi che questa sentenza produce nella mia testa.
E’ la voce del professore alla facoltà di Giurisprudenza, quando riusciva a scovare un buco nella rete dei miei insonni studi, trasformandolo in voragine invalicabile.
E’ la voce dell’avvocato presso cui ho fatto praticantato, quando tra una chat erotica e una partita di videopoker trovava il tempo per lamentarsi di ogni mia mancanza nella mole di compiti che svolgevo in sua vece.
E’ la voce del giudice Tommasini in aula, quando nel corso dell’ultima udienza del più importante processo della mia carriera ero crollata su me stessa, in piedi, immobile e vuota come una statua: «…Avvocato, ma si sente bene? Insomma, se non ha altro da aggiungere dichiaro tolta la seduta.»
 
Togliere è molto più complesso che aggiungere: costruiamo la vita come un castello di carte, una alla volta con meticoloso sforzo, infliggendoci le più variegate pene in vista di una ricompensa, uno scopo di cui, forse, avremmo fatto pure a meno.
 
Quel giorno dall’aula sono uscita in orizzontale, e mai più vi ho rimesso piede.
 
Da quel primo ricovero era passato parecchio tempo, speso tra psicologi, medici e pasticche, tentando disperatamente di riconquistare la mia vita. Nulla aveva funzionato.
Ogni volta che cercavo di recuperare la mia normalità, una caduta, multiforme e verticale, mi rispediva nel baratro.
Ogni volta una corsa in ospedale: dolori al petto, mal di testa lancinanti, spasmi muscolari, massicce eruzioni cutanee. Il mio corpo sapeva perfettamente come offendermi, e io subivo inerme.
Ogni volta sempre meno familiari e amici disposti ad accompagnarmi, a credermi e sostenermi. Anche i medici del pronto soccorso a questo punto mi conoscevano bene: raccoglievano sintomi e parametri di prammatica, ma già sapevano che non li avrei impegnati più del tempo di prescrivere l’ennesimo calmante.
Ormai ovunque avevo un’etichetta invisibile: «è una così cara e bella ragazza, peccato sia fuori di testa.»
Distrutta dal mio stesso corpo, che si rifiutava di vivere la mia vita, cosa può esserci di peggio secondo voi?
E’ stata poi una mattina, chiusa in quell’appartamento infinito come il mare, a donarmi la folgorazione.
Il mio corpo era il mio nemico, pertanto andava eliminato.
Semplice e lineare come il segno della lama che mi ha aperto il passaggio.
 
«Perchè lei è qui?» aveva chiesto il Guardiano dell’Oltretempo.
«Perchè non voglio più combattere: ho dato tutto, ma non sono riuscita a diventare la persona che avrei voluto.»
«Siete tutti uguali voi umani, dimenticate sempre che prima di diventare bisogna essere.»
«Prego?»
«Non combatta il suo corpo, lo ascolti; se urla così forte, è per suggerire qualcosa che dentro la sua testa preferisce ignorare.»
«Impossibile, io sono certa di voler diventare il migliore avvocato della città, perché insinua che mi stia ingannando?»
«Si è resa conto di aver detto tutto lei?»
 
Concedetemi la battuta, se non mi avesse bocciata anche il Guardiano dell’Oltretempo, oggi non sarei qui sotto questo faggio a godere delle mille voci della vallata silenziosa, mentre voi, amiche mie, vi rifocillate nel verde.
Ora però il sole sta calando, è meglio tornare in alpeggio. Domani è giorno di mungitura, posso già sentire quanto siete entusiaste.
Anch’io lo sono.