È così che finisce

E quindi è così che finisce.
Intendo il mondo, la vita sulla terra.
Avrei immaginato boati, schianti, esplosioni.
E invece nel silenzio più completo termina il nostro tempo.
Come al solito ci dimostriamo più resistenti degli altri esseri viventi. Più ostinati.
Ma anche il nostro momento è giunto.
Levo il respiratore e l’odore di solfuro di idrogeno mi fa girare la testa per un istante, così simile alle uova marce e comunque più invitante della sbobba che ho mangiato negli ultimi dieci anni. Arranco sulla pila di rifiuti e lascio che la maschera e la piccola bombola d’ossigeno finiscano a farne parte. Voglio arrivare in cima, voglio vedere oltre. Il mare o i boschi o le montagne. Non so cosa troverò, ma voglio vedere il mondo un’ultima volta, prima che finisca.
Dalla tasca del giubbotto sfilo un pacchetto di sigarette stropicciato, ma ancora sigillato. Lo teneva mio padre nel comodino, dopo aver smesso di fumare, per ricordarsi a cosa era scampato. Come chi tiene il proiettile che gli ha mancato il cuore per un soffio.
Incido con l’unghia la plastica della confezione che svolazza a terra. Oh beh. Rifiuto più o rifiuto meno, ormai che differenza fa? Ci siamo seppelliti con le nostre stesse mani. Con le nostre invenzioni. Con la nostra testardaggine.
Tutti a dire che la coca cola in bottiglia di vetro è più buona, ma poi ci riempivamo la casa di plastica e lattine. Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Potevamo ancora fermarci.
Forse tornare sui nostri passi.
Ma no, noi siamo ottusi, il mondo lo volevamo piegato ai nostri scopi, proprio come pareva a noi, senza badare alle conseguenze.
Forse eravamo convinti che avremmo trovato un’altra casa. Un altro pianeta da infestare come un cancro. Ma così non è stato. Abbiamo perso tempo a farci la guerra, come le formiche nere con quelle rosse. A giocare a chi ha il cazzo più grosso. A chi comanda davvero. E abbiamo dimenticato che la Terra stava morendo. Si scuoteva, soffiava e sputava per attirare la nostra attenzione, ma terremoti, tornado e alluvioni erano soltanto uno spettacolo da immortalare con le nostre fotocamere. Niente più.
Che sciocchi siamo stati.
Annuso il profumo delle sigarette, ne prendo una tra le labbra spaccate e sanguinanti e il resto del pacchetto lo getto a terra.
Risalgo, un passo dietro l’altro, i piedi affondano nella plastica fusa, ogni metro un tormento e la vetta è ancora lontana.
L’accendino dovrebbe essere nella tasca dei jeans, la punta delle dita mi fa male quando cerco di raggiungerlo. Le unghie sono saltate via giorni fa e la carne viva suppura da allora.
La fiammella rifulge. Avvicino la punta della sigaretta che si accende di arancione e il fumo sale su e mi fa lacrimare gli occhi.
Tiro una boccata, la gola brucia, un filo grigio esce dalle narici e copre l’odore di uova marce. Cosa ci trovasse poi mio padre, credo non lo capirò mai, ma è l’ultima cosa che me lo riporta alla mente, e mi ricorda gli sbagli dell’umanità.
Sono quasi in cima.
Pochi passi ancora.
Sono così debole che il piede manca l’appoggio e finisco con la faccia nei rifiuti.
Cazzo, la mia sigaretta! Dov’è finita?
Persa in mezzo alla plastica, ai rottami delle automobili, dei computer, dei cellulari, dei forni a microonde, ai file elettrici saldati, fusi tra loro in un intrico di buone intenzioni, finite nello scarico del cesso insieme a tutta la merda accumulata in anni di soprusi ai danni del nostro pianeta.
Infilo il braccio in profondità, trovo un appiglio e mi muovo.
Più su.
Il sole mi ustiona il cranio in bolle sfrigolanti di capelli radi.
Le palpebre vanno a fuoco, talmente sottili che mi pare di vederci attraverso.
E ora, arrivato sulla vetta, apro gli occhi, per godere del paesag–
Cristo Santo…
Palazzi in fiamme.
Strade battute da venti tossici che corrodono il metallo dei cartelli.
Fumo e polveri dalle ciminiere tanto scuri da sembrare solidi.
Corpi martoriati che si sciolgono come copertoni in un forno crematorio.
Mi sbagliavo, non c’è più nulla da vedere: il mondo è già finito.