Giulio mi passa la canna, scuoto la testa.
«Nemmeno un tiro?»
«No».
«Sei troppo rigido».
Aspiro l’ultima boccata dalla sigaretta, poi con un colpo di indice la lancio giù dal balcone.
«Cazzate. Solo non mi piace».
«Sei l’unico. Per me hai paura di lasciarti andare».
So già dove andrà a schiantarsi questa conversazione e non mi va.
«Per me invece sei ripetitivo».
Giulio continua a fumare serafico la sua canna appena rollata e si stropiccia gli occhi.
«Dico solo che si dovrebbe provare tutto, aprire la coscienza, altrimenti non sai un cazzo, solo quello che ti obbligano a studiare».
Guardo giù il traffico in colonna.
«È per questo che compri il Roipnol con il ricettario rubato a tuo padre, per sperimentare?»
«E perché mi piace rompergli i coglioni» ride. «È così stronzo che, se si è accorto che il ricettario è sparito, avrà dato la colpa alla filippina».
«Comunque, non mi sembra che sia una esperienza così tosta farsi di Roipnol. Dopo dormi e basta.»
«Sembra. Invece la mia mente viaggia in posti stupendi» guarda il cielo e fa un ampio gesto con il braccio. «Domani lo faccio, è deciso».
«Cosa?»
«Il buco. Con Nic, lui sa come, l’ha già fatto. Dice che…»
«Io dico che sei un pirla. Che lo fai apposta per farmi incazzare e che domani non farai proprio niente.»
«Scommetti?»
«Siete due deficienti. Non saprete più come uscirne poi. Li vedo i tossici in giro. Nella fontanella sotto casa le siringhe galleggiano e a nessuno frega un cazzo di niente».
«Che palle! Ma che c’entra la fontanella? E comunque, ho detto che provo non che divento un tossico. Provo e poi basta. Non resto a guardare come te».
«E i soldi?»
Tira fuori un biglietto da cinquanta dalla tasca dei jeans. Suo padre, ovvio.
«Facciamo a metà. Nic conosce un tipo al parco che per un centone ci vende una dose».
Di colpo ho freddo, entro in camera. Giulio mi segue, mi abbraccia.
Infilo il naso tra i suoi capelli e aspiro forte l’odore di shampoo e fumo. Annuso la sua pelle calda che sa di buono, mentre urlo in silenzio per scacciare la paura.
Il giorno dopo siamo i soliti davanti al Magenta, Giulio non c’è. Chiedo a Pablo se l’ha visto, si gira appena, scuote la testa e continua a parlare con una tipa.
Accendo una sigaretta, poi mi accorgo che ne ho già una appoggiata nel posacenere. Fumo e intanto guardo la strada, in attesa di vederlo spuntare dall’angolo, lo zaino buttato sulla spalla e le mani affondate nelle tasche. Poi sento la sua voce da dietro, mi passa a fianco e dice solo: «Andiamo».
Camminiamo in silenzio fino al parco.
«Nic mi ha mollato questa» in mano ha una carta stagnola ripiegata, «dice che vuole farsi con la sua tipa».
«Ridagliela» dico ruvido, ma in realtà è una preghiera.
«Col cazzo! L’ho pagata ormai».
«Che ti frega? Tanto tuo padre ha un sacco di soldi!»
Non risponde e continua a camminare più svelto. Faccio qualche passo di corsa per stargli dietro.
«Dove andiamo?»
«Ai bagni».
Mi fermo di botto.
«Ti aspetto qua».
Si volta.
«No, tu vieni. Devi aiutarmi».
Non faccio un passo. Giulio mi viene vicino e mi strattona il braccio.
«Mi devi mettere il laccio, da solo non riesco».
«Te lo scordi, cazzo!» mi divincolo.
«Oh, non puoi mollarmi anche tu!» urla adesso. «Lo vuoi capire che da solo non ce la faccio?»
Ha gli occhi grandi e lucidi, come quella volta che ci hanno fermato quei tre stronzi per gonfiarci di botte e nessuno ha nemmeno provato a difenderci. Avevamo solo quattrodici anni, santiddio!
«Ok», dico e scendo le scale dei bagni.
Giù la luce del neon sfarfalla e la puzza di piscio è nauseante. Ci chiudiamo nel cesso e Giulio tira fuori dallo zaino un cucchiaino e la siringa, che appoggia nella mia mano.
«Passami l’accendino».
Lo tiro fuori dalla tasca e glielo do. Gli scivola dalle mani e cade anche lo zaino, sparpagliando a terra sigarette, chiavi e monetine.
«Merda!» si affanna a recuperare tutto, «non so più che cazzo faccio!»
Ho caldo e mi viene da vomitare. Seguo i suoi movimenti impacciati e intanto penso che possiamo ancora fermarci.
«Buttiamo tutto nel cesso e tiriamo l’acqua, eh?» sorrido.
Giulio mi mette in mano il laccio emostatico.
«Dai! Ci facciamo una birra con gli altri, offro io», insisto.
Lui si tira su la manica della camicia, ha la faccia sudata.
«Mettilo».
Non mi muovo, allora urla: «Mettilo!»
Stringo il laccio e mi volto. Dopo qualche istante, Giulio prende lo zaino e apre la porta del cesso.
Lo seguo sopra le scale, fa qualche passo e si siede sul prato, i movimenti sono rallentati. Mi siedo anch’io. Cerca di accendersi una sigaretta ma non riesce, ride; l’accendo e gliela passo. Mi ringrazia con un sorriso imbecille, poi si sdraia e biascica qualcosa che non ascolto.
Dopo un po’ lo guardo. Ha gli occhi semichiusi, la sigaretta che si consuma tra le dita, e la bocca socchiusa, un rivolo di saliva che cola di lato. Sembra morto, invece respira.
«Stronzo», mormoro tra i denti.
Non so perché cazzo sono qui, né dove andare. Giuro che vorrei pestarlo con tutta la forza che ho!
Invece, mi sdraio vicino a lui e basta, in attesa che torni.