Eliminazione diretta

Un divertimento galattico, un’estinzione di massa, un solo Campione. Primo classificato nella CENTOCINQUESIMA Edizione di Minuti Contati con Diego Di Dio come guest star, un racconto di Andrea Partiti.

 
La porta dell’arena si spalanca davanti a me.
Dagli spalti ancora nascosti sento urla, grugniti, barriti, stridii, suoni che non so descrivere.
Trentaquattro volte sono sceso in campo su arene come questa, e trentadue volte ho ucciso un altro essere umano. Prima erano vecchi, bambini, deboli, malati, moribondi. Poi sono iniziate le sfide più intense e pericolose.
Una sola costante ho osservato: ogni scontro finisce con un morto e con un vincitore che viene prontamente curato per esibirlo alla folla strepitante.
Altri hanno pensato di ribellarsi, di posare le armi e non combattere. Dalle gabbie li abbiamo visti squartati da forze invisibili come monito, per il divertimento del pubblico. La non violenza non era un’opzione per noi.
Ogni volta che si apre la mia gabbia, afferro l’arma che trovo sulla soglia e mi preparo a prendere una vita, fosse anche la mia. Nessuna alternativa, non si torna indietro.
Faccio qualche passo avanti e soppeso il tridente che stringo nella mano destra. È una buona arma. Ho dovuto usare pugnali e lame non pensate per dita umane. Ho provato a sollevare una spada ben più pesante di me, capendo con orrore che avrei dovuto battermi a mani nude. Il tridente taglia, è appuntito, può stordire col manico di solido metallo. Mi dà sicurezza.
Dal lato opposto il mio avversario già si avvicina. Ha lo sguardo spento, rassegnato. Ne ho visti molti come lui, sono i più pericolosi perché hanno perso la loro umanità. Non soffrono più nell’uccidere e ferire. Porta un’alabarda nera ma la impugna male. Devo impedirgli di spezzare l’asta del mio tridente per mantenere il vantaggio.
Il pubblico attorno si fa silenzioso, aspetta lo scontro. Non ci sono le distese di creature simili tra loro che vedevo nei primi incontri. Migliaia di grossi lumaconi blu, di corpi metallici, di creste palpitanti. Chi avrebbe assistito era sempre un mistero, ma erano sempre uniformi. Questa volta no. Il colpo d’occhio è incredibile, tra corna, tentacoli, bocche improbabili che digrignano parodie di denti. Dalle creature minuscole raccolte nelle file più vicine, ai pachidermi globosi sugli spalti più lontani, fino agli strani esseri gassosi che galleggiano qualche metro sopra gli spalti.
Un pestare di passi mi riporta alla realtà dell’arena. L’alabarda nera non riflette la luce. Salto verso destra e lascio che la foga del mio avversario lo sbilanci. I suoi addominali e le sue spalle si tendono nello sforzo di cambiare la direzione dell’arma per seguire il mio movimento, ma è troppo lento e il primo sangue è mio. Il braccio sinistro gli ricade inerte al fianco, coi tendini tranciati.
Danziamo colorando la sabbia vitrea col nostro sangue, ma quel primo vantaggio si rivela decisivo. Io sono all’attacco e il mio avversario si difende. Perde un arto alla volta e finisce aperto ai miei piedi, col tridente conficcato a inchiodare le sue interiora a terra. Lascio che muoia dissanguato. Alla folla piacciono le morti lente, ho imparato.
«Grazie» rantola chiudendo gli occhi.
Quando smette di respirare sento il calore familiare dei raggi che mi curano e mi trascinano, ma non verso la gabbia questa volta, qualcosa è cambiato. Mi depositano su un palco che troneggia sull’arena. Sento arti molli afferrarmi e inserirmi nell’orecchio un chiodo gelatinoso che si fissa con un pizzico. Ora capisco le voci: mi acclamano, mi festeggiano. «Campione degli uomini!» gridano senza tregua. Ma le creature attorno a me sono silenziose, fanno cenni di rispetto, non sono esaltate. Lente mi si stringono attorno e mi guidano verso un posto vuoto sulla tribuna speciale. Diversi tra loro hanno gli occhi appannati di chi è passato per l’arena.
In campo scendono due creature simili a grossi granchi bipedi e l’attenzione di sposta su di essi. Uno è più piccolo, la sua corazza sembra molle e le corna sbucano appena sopra agli occhi. Forse lo umanizzo, ma sembra spaventato.
Ripenso a quel «Grazie» e mi sento solo.