Il mio meglio

I biglietti aerei per New York e i contratti di lavoro giacevano sul comò di quella che presto sarebbe diventata la mia vecchia cameretta.
Un mese e mezzo alla partenza.
«Vai dall’altra parte del mondo per fare la cameriera» continuavano a vomitarmi in faccia mia madre e mio padre, quasi con disprezzo. «Hai trent’anni!» insistevano. Come se avere trent’anni fosse una colpa.
“Vado dall’altra parte del mondo per prendermi la mia vita” avevo voglia di rispondergli. “E per allontanarmi il più possibile da voi.”
Avevo già pronte le valigie. Lui, invece, non le aveva ancora nemmeno comprate. Insistevo ogni giorno, da mesi, perché si sbrigasse – non stavamo certo andando a fare una gita di piacere lunga un fine settimana – ma lui non sembrava avere la mia stessa fretta di lasciare tutto e partire. Sarà l’età. Se avere trent’anni è una colpa, averne quasi quaranta dev’essere un delitto.
Quella mattina le palpebre faticavano ad aprirsi e la stanza girava senza darmi un attimo di tregua. Lo stress prepartenza si faceva già sentire senza fare sconti. Dermatite, perdita di capelli, nausea, regolarità del ciclo andata a farsi benedire…
Sono uscita di casa all’alba. Due soste veloci. Bar e farmacia. Poi subito a casa, in bagno, ma solo per sicurezza.
 
Due lineette è negativo.
O positivo?
La confezione del test Clearblue giaceva là, sul lavandino. La facciata principale di quell’involucro di cartone urlava a gran voce l’attendibilità superiore al 99%, in basso a sinistra, invece, ostentava gli studi scientifici trentennali che avevano portato i signori Clearblue a poter dichiarare quasi con estrema certezza le settimane trascorse dal fattaccio.
Mi sono allungata verso il marmo freddo del mobile bagno per afferrare la scatola, cercando di trattenere l’avanzo di pipì che mi ero tenuta per gli altri due test che avevo acquistato, sempre per sicurezza. Ho tirato fuori il foglietto illustrativo dotato di disegnini parecchio elementari e ho fiondato lo sguardo su quello che rappresentava due lineette.
Positivo.
Dallo stupore ho mollato la presa e ho perso qualche preziosa goccia di pipì.
Due lineette è positivo.
Mi sono immersa nell’illusione che quei segni fossero troppo deboli, non volevo dargli fiducia, perciò ne ho fatto un altro. Questa volta facendo pipì nel bicchiere e immergendoci lo stick dentro, una tattica più affidabile.
Due lineette. E questa volta erano prepotenti, cattive, vivide.
Ho sentito scrosciare sotto di me l’avanzo di liquido caldo e nemmeno ci ho provato a fermarlo.
Sono rimasta a fissare il pezzo di plastica che stringevo tra le mani per un tempo che mi è parso infinito. Le due lineette sempre lì. Mi sono ritrovata, d’un tratto, a stringere le gambe per non rischiare che la cosa viva dentro di me si disperdesse nelle fogne. Un istante dopo mi sono resa conto della stupidità di quel gesto, ma mi sono perdonata subito.
Ho tirato su le mutandine, ho abbasso il coperchio del water e mi ci sono seduta sopra. Era freddo. Avevo freddo.
L’ho detto a lui. Dovevo dirglielo. Non ero in grado di risolvere la faccenda da sola, non era tra i miei programmi né tra le mie competenze, non sapevo a chi rivolgermi né cosa avrei dovuto fare. Insomma, l’ho detto a lui. Dovevo farlo.
Ci ha messo un paio d’ore ad arrivare a casa mia. Lui coi suoi genitori, i fratelli, le cognate e i nipotini. Ho letto subito sul volto di mia madre il panico causato dal ricevere ospiti senza aver prima stirato il centrino di pizzo sotto al centrotavola della sala da pranzo. I suoi occhi che vagavano per la casa in cerca di qualsiasi cosa fuori posto, ma in quella casa niente è mai stato fuori posto. Niente eccetto me.
Io continuavo a non capire. Finché la madre di lui, colei che l’aveva messo al mondo, mondo che poi l’aveva messo sulla mia strada, si era avvicinata a me con le lacrime agli occhi e mi aveva stretta tanto da togliermi il fiato.
Dio mio!, quanto ho odiato quegli sguardi felici della sua famiglia, quelle grida entusiaste di mia madre e mio padre, quell’orgoglio stampato sulla faccia del responsabile di ciò che avevo in grembo. Il maschio che aveva usato me e il mio corpo per dare un senso alla sua stupida vita. Lo stesso che si era avvicinato a me sorridendomi e sussurrandomi che era quello il meglio che stavamo aspettando. E finalmente era arrivato. Mettendo fine alla necessità di andarlo a cercare altrove.
Mi facevano i complimenti. Mi abbracciavano. Piangevano dalla gioia.
Ero così piena eppure mi sentivo così vuota.
Ma era quello il meglio. Anche se non ho mai capito per chi.
Però adesso non ha più importanza. Il medico mi aveva avvertito che non avrei sentito dolore, che ero solo all’inizio della gestazione quindi l’espulsione sarebbe stata una faccenda semplice. E così e stato. Una faccenda semplice.
L’aereo sta per decollare. E siamo finalmente pronti per il nostro meglio. Io e il vuoto che mi porterò dentro per sempre.