Jamila

Jamila gioca in salotto. Prende una copertina bianca rossa e nera, con ricami di pavoni e disegni geometrici. Se la cala sulla testa, come un mantello. Finge d’essere una strega, bislacca e imbranata. Quella copertina le ricorda la nonna, che la cucì per lei recuperando un vecchio abito tradizionale.
Il padre è nella stanza accanto, cerca di raccogliere più informazioni possibili dalla radio, e scambia messaggi con parenti e amici, dentro e fuori la striscia. L’elettricità c’è solo poche ore al giorno, non sai mai quando sparisce. Anche la rete cellulare sembra che funzioni solo a tratti. Ogni tanto si sporge e guarda Jamila: nonostante tutto riesce a ridere e giocare, e fa ridere anche Samih!
Il piccolo ogni volta che sente uno scoppio urla, e trema tanto che la mamma deve tenerlo in braccio almeno dieci minuti perché smetta. Ma raramente passano più di dieci minuti senza una bomba. E adesso sta persino ridendo! Jamila è magica, una forza della natura. E non ha ancora dieci anni.
La madre è in cucina, lava i piatti, sente le risa dei suoi figli e una lacrima silenziosa le scivola lungo la guancia.
 
Jamila ripensa a quella notte. Due anni prima c’era stato il terremoto: aveva avuto paura che la casa crollasse. Ma questa volta son state le bombe, e il palazzo è venuto giù per davvero.
Tutta la notte sotto le macerie. Non riusciva a vedere Samih, ma lo poteva sfiorare con la mano. Lei chiamava aiuto, e gli diceva che sarebbe andato tutto bene. Il fratellino all’inizio piangeva, e gemeva, poi più niente. Dopo un tempo infinito spiragli di luce cominciarono ad apparire, in alto, sopra la testa, prima fiochi poi via via più chiari, a dire che il mattino era arrivato. Ancora ore di paura, di dolore insopportabile, di lacrime. Alla fine mani sporche e stanche la tirarono fuori; la caricarono su un’ambulanza.
Adesso è nel reparto maternità di un ospedale che non sa come si chiami. Chissà perché nel reparto maternità, forse mancano letti altrove. Nella sua stanza tre letti sono occupati da giovani madri con bambini molto piccoli, uno da un bambino di due o tre anni, tutto solo, altri due da adulti: un signore anziano senza una gamba e senza un braccio, una donna magra tutta ricoperta di bende.
La copertina della nonna l’aveva addosso quando l’hanno tirata fuori. Ora è lì, a coprire e nascondere la gamba che non c’è più. Ha pianto per quasi ventiquattr’ore di fila, da quando ieri mattina le hanno detto che mamma e papà son volati in cielo. Ma ora ha smesso; gli occhi rossi e pesti han chiuso con lacrime.
Vuole andare via, in occidente, dove possano darle una protesi. È una lottatrice: vuole studiare, diventare un chirurgo, come quelli che l’hanno salvata. Quando sarà grande tornerà in Palestina per aiutare i bambini -pensa al fratellino-, gli anziani -pensa alla nonna-, e chiunque ne abbia bisogno. Ha deciso.
 
Il dottore si affaccia alla stanza. È sconvolto, nonostante l’orrore vissuto nelle ultime sei settimane. Un foro di un metro e mezzo di diametro si apre nella parete di fronte, lungo la quale erano allineati tre letti. Oltre il fumo e le faville i suoi occhi vedono la disperazione delle strade deserte e del palazzo dietro l’ospedale, crivellato di colpi. Il letto di destra e quello di sinistra sono ancora lì: nel primo una donna stringe a sé un neonato, entrambi gridano; nel secondo un uomo anziano ha la bocca spalancata e gli occhi sbarrati.
Tutta la stanza è un caos di strepiti, di fumo, di odore acre e di macerie. Il medico si stupisce che non ci siano fiamme, a parte qualche scintilla che turbina nell’aria grigia e cupa.
Il letto centrale non c’è più. Come disintegrato. In terra solo macchie scure, frammenti di metallo, di tela, di legno, di carne, che si spargono a raggiera dalla voragine di fronte a lui. Un metro davanti ai suoi piedi, inspiegabilmente quasi intatto, un quadrato di tessuto beduino: la copertina rossa nera e bianca della bambina che occupava quel letto.