La carriola

Sto immobile nel letto, con gli occhi aperti. Non posso addormentarmi come domenica scorsa: niente lavoro per tutta la settimana.
Le coperte di lana ruvida mi soffocano. Ascolto i ticchettii della pendola, l’Antonia che russa di fianco. Suonano le undici. Mi lavo veloce nel catino, al freddo, poi indosso i vestiti da lavoro: la domenica notte sono ancora puliti.
Mi fermo sul letto dei piccoli, Enea e Giacomo da testa, Mara da piedi. Li accarezzo: lo posso fare solo la notte, mentre dormono. Non si può durante il giorno: devono diventare grandi, ci vuole disciplina.
Sul tavolino c’è il quaderno di Giacomo. Accidenti, deve aver studiato fino a tardi. Ha chiesto aiuto all’Antonia perché sa che io non ci capisco niente, non sono d’accordo. Le ha chiamate espressioni, operazioni, tutta roba senza senso. Glielo dico sempre: smettila di perdere tempo con quelle pataccate della scuola. Bisogna lavorare sodo, piuttosto. Ma quest’anno finisce le elementari e lo mando subito a piantare gli asparagi.
Fuori di casa la nebbia penetra nel giaccone. Prendo la bicicletta, ci lego la carriola. Esco dal paese insieme agli altri, chi a piedi, chi in bici.
Pedalo nel fango, poi arrivo all’argine in costruzione, appena in tempo per mettermi in mezzo al gruppo. Il corno suona, i caporali della Bonifica scelgono, mi mettono in una squadra.
Prima di iniziare guardo quelli arrivati in ritardo: domenica scorsa il mio sguardo doveva essere così, rabbioso, rassegnato. Tornano indietro, verso il paese.
 
Mi sono appena seduto, le braccia dure per la fatica. L’ultima fumata dopo aver finito, poi a casa. Uno degli scariolanti mi viene incontro.
«Egisto ti tè? Tanto che non ci vediamo.»
Carlo. Lo riconosco solo dalla voce, sporco com’è di fango. Il ricordo corre a quella sera: l’ultimo giro di tarocchino, lui seduto di fronte, con le carte in mano. Ero convinto di avere la giocata buona, invece ha vinto Cesari, si è portato via le mie terre. C’ho pensato mille volte, come diavolo ho fatto a perdere, non l’ho ancora capito.
«At salùt Carlo. Cosa fai qui?»
Domanda inutile. Sorride triste e mette la carriola di fianco alla mia.
«Non ci vediamo da quella sera. Allora è vero che ti sei trasferito a Malalbergo.»
Non lo guardo negli occhi, non ce la faccio. «Un bel sit ed merda. Era l’unico posto dove mi davano da lavorare, una settimana per l’altra.»
«Il tuo podere: Cesari l’ha dato in mezzadria.» Carlo sembra imbarazzato, forse anche più di me. Parliamo poco, poi se ne va lasciandomi solo con i ricordi.
Siamo scappati da Zola con quello che ci rimaneva su un carretto, senza salutare nessuno. Antonia piangeva, tenendosi il pancione. Ho guardato per l’ultima volta il podere, quello di mio padre e del padre di mio padre. Era autunno: dietro di noi i vigneti rossi, ancora pieni di sole. Davanti la nebbia della bassa, malaria e fango.
 
Sono sceso al cancello col cartello nuovo.
Sotto di me Bologna è più grande, Zola Predosa almeno il doppio: erano vent’anni che non tornavo. È una bella mattina, posso vedere tutta la pianura, fino alle Alpi imbiancate.
Giacomo arriva dopo aver scaricato le ultime cose dal camion.
«Ho finito, Papà. Tutto a posto, Mamma sarebbe stata contenta.»
Guardo verso la casa, imbiancata di fresco. Noto che sotto al portico d’entrata ha sistemato la mia vecchia carriola di legno. È tarlata, consumata dal tempo, dalle mie braccia.
«Giacomo, e quella dove l’hai trovata?» Mi innervosisco, col tono con cui lo sgridavo quando era piccolo. «La bruciamo subito, non la voglio più vedere.»
Sorride in modo spavaldo: «Invece no, la lasciamo lì, così ci passiamo davanti tutti i giorni. Per tutte le volte che mi hai detto di smettere di studiare e andare a lavorare. Vieni, ti aiuto.»
Ha ragione: è grazie a lui, alla sua determinazione e al diploma da Perito Agrario: lacrime di orgoglio mi bruciano gli occhi, ma non glielo posso far vedere.
Tengo su il cartello, mentre lo inchioda al suo posto.
Egisto Sarti e figlio, società agricola. Vendita vino.