La parete del mare

Fyodor ha ucciso un uomo, uno che neanche sapeva chi fosse, ma che gli aveva mancato di rispetto, e tutti sanno che a Fyodor nessuno può cagare il cazzo. Gli ha dato una sberla in faccia col boccale di birra, cranio rotto, emorragia interna e addio.
Ora Fyodor è in prigione.
La cella è quadrata. Tre pareti di roccia sporca di muschio e la quarta che non c’è: solo uno strapiombo che dà sul mare. Almeno la vista è buona, una linea azzurra con sopra le nuvole e le onde che fanno un bel rumore. Fyodor si avvicina, respira l’odore salato e ascolta i gabbiani. Poi sbircia di sotto e fa un salto all’indietro con lo stomaco che gli urla dallo spavento. Sotto ci sono almeno cento metri di niente.
 
Il cigolio del cassetto di ferro della cella: è ora della pappa. Fyodor è seduto sul ciglio dello strapiombo e succhia la zuppa con pezzi di pane nero, le gambe a penzoloni che ballano sul nulla. Le onde si spaccano sugli scogli, la schiuma schizza così in alto che sembra gli arrivi ai talloni. Vorrebbe calarsi giù, ma la parete è liscia e scalarla impossibile. E per andare dove? Senza una barca chissà quante miglia a nuoto.
«Bastardi!» Urla al vento. Nessuno risponde.
Si fa notte, il cielo si spegne. La cella è rivolta a sud, oppure a nord? Mai più un tramonto, mai più un’alba, solo un orizzonte insipido e senza colore.
 
Fyodor lo sa, perché gli hanno dato quella cella: così può ammazzarsi quando vuole e finirla lì. Certo, sarebbe un bel salto, il suo corpo si sfracellerebbe sulle rocce, si ridurrebbe in pastura per i pesci.
Tira indietro le gambe dallo strapiombo e si mette a fissare il cassetto di metallo con dentro la scodella vuota. Lui è vivo, ogni giorno mangia minestra che qualcuno ha cucinato per lui, fatta di verdure che hanno strappato dalla terra e bollito per lui. Verdure uccise per lui da gente che lavora per lui, per farlo vivere. Per lui, un assassino.
E quello che è morto? Era stato un bambino, aveva imparato a camminare, una madre lo aveva cresciuto e amato, era uno a cui piaceva andare al bar e ridere con gli amici.
Poi uno stronzo gli ha rotto un boccale di birra in faccia.
Fyodor è più fortunato, lui può scegliere quando e come andarsene: basta un salto.
Si ritrae inorridito. Alza i pugni: «Merdaaaa!» Il mare non risponde.
 
Fyodor ha gli occhi pieni di lacrime. Chiede perdono. Si merita tutti gli anni passati a fissare il mare in solitudine per colpa di una ragazzata tradotta in tragedia.
Ma adesso li frega tutti: è pronto per il salto.
Un, due, tre. Si butta nel vuoto.
Ma non cade, dopo un metro appoggia i piedi sull’immagine delle onde che si rompono sugli scogli. Sembrano lontane, ma non lo sono.
Tende la mano davanti a sé e il dito tocca l’orizzonte: pixel variopinti sfrigolano sotto il polpastrello.
Lo schermo si spegne, l’odore del mare sparisce, i gabbiani tacciono.
La quarta parete c’è sempre stata, e ora lo spettacolo è finito.
Soffri, Fyodor.