Ombre

L’Aquila, 6 aprile 2009, ore 3.30
Strisciare le toglie il fiato. Quando sfrega la pancia contro il pavimento, il dolore che irradia dalla ferita le raschia l’addome con artigli invisibili.
Destro. Sinistro.
Sara riesce a trascinarsi solo con le braccia.
Destro. Sinistro.
Un urlo le parte da dentro, spegnendosi in un fiotto cremisi che le imbratta la bocca e il mento: il sapore ferroso è rivoltante.
Il cuore le martella nel petto. Sara teme di non riuscire a raggiungere la camera di mamma e papà, dove poco prima si sono sollevate le urla. Grida interminabili.
Fino agli schiocchi, colpi secchi che le hanno trasmesso scosse di freddo sui denti.
Sta quasi per raggiungere la porta della camera dei suoi, quando si accorge che il suo corpo ha preso a tremare. Trema come le pareti, la casa, il palazzo, e tutto il quartiere della Villa Comunale.
Un’altra scossa, l’ennesima della giornata.
Sara si rannicchia sul pavimento freddo e umido. Il gorgoglio della terra esplode in un boato e lei viene risucchiata verso il basso. Vola.
Uno schianto la scaraventa contro quello che lei crede sia un muro: il sopra, il sotto, è tutto confuso. Il dolore le riverbera in ogni parte del corpo come se le ossa dovessero esploderle da un momento all’altro.
Quando riprende a volare, si chiede se toccherà mai terra. La pioggia di detriti e ferri e vetri le squarcia la pelle, sulle braccia, sulle gambe, sulla schiena.
Un secondo schianto. L’aria è ovattata. La polvere le chiude la gola e il dolore è insopportabile.
Sara è immersa in un buio denso e, prima di venirne risucchiata per sempre, c’è un’altra cosa che si chiede.
Dov’è Diego?
 
L’Aquila, 6 aprile 2009, ore 3.34
Una nebbia di cenere lo avvolge, trafitta da lame di luce arancione. Una luce stanca, esausta.
È finita. È tutto finito.
E pensare che fino a qualche minuto prima Diego era disperato, non sapeva che fare, come rimediare.
Adesso ha ripreso a respirare regolare, attraverso il fazzoletto che si è sistemato davanti alla bocca per non ingoiare il pulviscolo di cemento e ferro.
È finita. È tutto finito, continua a ripetersi mentre avanza a tentoni, con le braccia a tastare l’aria, girando su se stesso per cercare di orientarsi.
Urla ovattate e pianti e lamenti lo circondano.
Insistenti, ostinati.
Diego crolla in ginocchio, tira giù il fazzoletto, si strizza i capelli con le mani e lancia un urlo al cielo, fino a quando non sente le corde vocali divampare.
È liberatorio.
La nebbia si dirada quel tanto che gli basta a scorgere una moltitudine di ombre, anime alla deriva nella notte più buia. Chi a terra come lui, chi claudicante, chi piagnucolante, chi a rimuovere macerie, strillando nomi.
Ombre insistenti, ostinate.
Cercano persino lì, le ombre. Lì dove, fino a poco prima, c’era il palazzo dove lui abitava con i suoi e sua sorella.
Sara…
Forse le ombre vogliono controllare…
Insistenti, ostinate.
…verificare che lui abbia fatto il bravo.
È finita. È tutto finito. E nessuno verrà mai a saperlo.