Tutto per una scimmia

L’ascensore squillò, le porte si aprirono.
Dan sospirò: meglio pensare al lavoro. Imboccò il corridoio.
Il signor Foster era appoggiato al banco di Sasha. Si voltò, sorrise. «Buongiorno, Dan.»
«Buongiorno.»
Foster si toccò il petto. «Bella cravatta.»
Come? Dan strinse i denti. «Non è granché.»
«No, mi piace!»
Le tempie pulsarono. «Allora?»
Il signor Foster smise di sorridere. «Scusa?»
«Cos’è, si parla di cravatte al lunedì? Nessuno me l’ha detto.»
«Ma ti sei offeso?»
«Cos’è lei, un direttore o vende cravatte?»
Sasha si sporse con gli occhi sgranati.
Dan allentò il nodo al collo. «Abbiamo il cravattologo!» Sfilò la cravatta, la sollevò e la lanciò in faccia al capo. «Ecco qua!» la fascia blu scivolò a terra. «Gliela regalo, ci si pulisca il culo!»
Foster spalancò la bocca. «Ma, Dan! Sei impazzito?»
«Mi licenzio.”
 
Quella mattina.
«Che fai?» Dasy era sulle scale.
Dan posò la tazza. «Fai colazione?»
«Non darmi troppo caffè»
«No, amore. Hai dormito bene?»
Dasy sbadigliò. «Russavi.» Raggiunse la penisola.
«E perché non mi hai svegliato?»
“Stavo per farlo.» Si issò sullo sgabello, portò i capelli dietro le spalle. «Sembravi un malato terminale.»
Gentile. Dan sistemò la tazza con l’unicorno sotto la macchinetta, premette il bottone di gomma e il muggito meccanico uscì assieme al caffè «Festeggiamo un po’ stasera?»
«Perché?»
Se l’era dimenticato di nuovo. «È il mio compleanno.»
«Mm, vero.»
Il caffè riempiva un terzo della tazza. «Non ti preoccupare.» Bottone verde, stop. Le allungò la tazza.
Dasy ci soffiò sopra. «E cosa vorresti fare?»
«Sushi?»
«Mi fa cagare.»
Per quello non lo mangiavano mai.
Dasy gli fissava il petto, arricciò le labbra. «Vai al lavoro con quella roba?»
Di che…? La cravatta. «È simpatica, dai.»
«Dove l’hai presa?»
«Su un sito. Hanno grafiche spiritose, fanno anche T-shirt.»
«Una scimmia con un telefono a banana?»
Dan annuì. «Fa sorridere, no?»
«Cambiala.»
«A me piace. Da bambino andavo pazzo per le scimmie.»
«Forse sei cresciuto? Vuoi fare la figura dell’idiota? Metti quella blu.»
Dan si passò una mano sulla fronte. «Quella è brutta.»
«È la migliore che hai.»
«Ma che t’importa?»
Dasy scese dallo sgabello e si avviò verso le scale. «Se il mio ragazzo sembra un coglione? Metti quella blu che è bella. Tanto lo sai che ho ragione.»
 
In ufficio.
Dan entrò in ascensore, premette il tasto 2. Lo specchio non mentiva: un blu insulso.
Bah, perché non poteva fare mai quello che voleva? Piegò la bocca in una smorfia. «Tanto lo sai che ho ragione, gne gne.» Rompipalle. Era sempre così. E lui zitto. Anche sulla cravatta doveva darle retta? Che scemenza. Ma era più facile che discutere.
Quella poi era la cravatta più brutta che aveva nell’armadio. Ecco, in pizzeria poteva dirle in quanti avevano guardato male la cravatta. Anzi, poteva chiedere ai colleghi cosa ne pensassero, così Dasy avrebbe capito di non avere sempre ragione. Che fastidio le avrebbe dato.
Che blu anonimo.
Forse era un problema. Forse doveva far valere le sue ragioni, per una volta.
L’ascensore squillò, le porte si aprirono.