Oreste “Qua e Là”

Atmosfere calviniane che fanno capolino in un ipotetico settecento canavesano. Tra televisioni e sottomarini ancora di la da inventare, un racconto di Maurizio Bertino.

 
Che il vecchio Oreste, detto “Qua e Là”, fosse testa strana non era mistero in valle, lui e quel suo cane che sembrava sorridere tutte le volte che lo si chiamava.
«Sono un’anomalia e prima che mai il Tempo mi leverà da questo presente, mio caro Contino.» Soleva ripetermi due volte su tre che passavo a trovarlo al suo grengiotto. «E a quest’età mi tocca ancora lavorare, io che la pensione l’avrei anche maturata!» E sì che la pensione nessuno sapeva che fosse, neppure il mio Maestro, ordinato al compito dalla diretta persona di mio padre: il Conte Giancarlo Bertoldino Valperga di Rivara.
«Devi girare al largo da quel paese e da quell’uomo: pare più che strano e da quando s’è messo a raccontare quelle storie, piace a pochi.» Ripetevano sia l’erudito che il mio nobile genitore e io, puntuale, arpionavo il puledro ogni volta che potevo e partivo.
Che poi me lo feci spiegare da lui, il significato di anomalia, e ancora oggi, a distanza d’anni, mi chiedo se fu per quello che da un momento all’altro, me presente, sparì.
 
Ho raccolto storie, tra il contado e tra quelli che, fin da sbarbati, erano soliti dividere il tempo con lui e mi pare d’avere da concludere che infanzia e prima età adulta fossero dall’Oreste vissute in totale normalità, che a rigor di logica è termine da poter opporre a quello di anomalia. Lavoratore silenzioso dei campi della mia famiglia; moglie e figli che la polmonite, uno dopo l’altro, portò via nel breve soffio di una stagione, quella fredda dell’inverno di cui ancora si parla e di cui, mia fortuna, non ho incontrato di simile in vita.
Una cosa lo contraddistingueva da tutti: se qualche oggetto si rompeva, l’aggiustava. Non importa cosa fosse o se l’avesse visto o usato prima d’allora. Lui arrivava, ci si sedeva di fianco e lo studiava, infine lo riparava. Lo stesso Conte mio nonno, più volte, s’era servito del suo talento per la costruzione dei patiboli per i malfattori o per quelli che lui riteneva tali. Oreste ascoltava gli ordini, si sedeva su una pietra del cortile, rimuginava tra sé e infine si metteva all’opera e ideava e montava. Mai richiesta fu lasciata inevasa.
Poi un giorno, d’un tratto e senza preavviso, eccolo che, dopo aver completato uno strumento di tortura (anche in valle avevano cominciato a girare voci di presenze di streghe e le si doveva per forza fare confessare), si mise a costruire un accrocchio rettangolare che pareva il supporto per uno specchio. «Questo è un televisore, già di quelli lcd, serve a vedere cose lontane.» Dichiarò. Solo che, nello specchio che lui ci montò dentro, la gente ci vedeva se stessa riflessa e nient’altro, ma lui non demordeva. «Ma no, che dici? Non vedi che sta per partire il telegiornale?»
In quattro e quattr’otto fu bandito dal castello e mai più alcuna richiesta gli fu commissionata dal mio nonno prima e da mio padre dopo. Lui prese il televisore lcd, il suo cane e la sua roba e si trasferì dal paese al grengiotto, su in alto, subito prima dei pascoli per le vacche. Aveva già una certa età allora e si pensò che il dolore per la perdita di moglie e figli si fosse infine manifestato mandandolo ai matti.
Io crebbi nelle storie che i bambini del contado, con cui condividevo il tempo tutte le volte che riuscivo a fuggire dal controllo del mio Maestro, mi raccontavano riguardo a lui: il vecchio “Qua e Là” che s’inventava storie e accrocchi dei più svariati pensando d’essere “Là”, in un’altra epoca o chissà dove, e invece trovandosi “Qua”. Nessuno di quegli strumenti faceva ciò per cui veniva montato, ma che storie che ne nascevano e che voglia di vederle che tutti avevano! Così, un giorno, decisi di volerlo proprio conoscere e in tal modo feci e m’inerpicai su per gli abitati del monte fino a raggiungerlo e a quella visita ne seguirono altre e poi altre ancora.
 
Non che fossi solo nelle mie incursioni al grengiotto di Oreste “Qua e Là”. I bambini parlano e le storie viaggiano. E i bambini hanno energie e una volta svolto il loro lavoro si fanno prendere dalla voglia d’investigare e così via, a trovare quel vecchio dalle strane storie e i suoi ammennicoli che, vero, non funzionavano, ma che con la mente si potevano anche usare, bastava fare finta che facessero quello per cui lui diceva d’averli costruiti. E Oreste amava parlare e spiegare, e tutti ad ascoltarlo con la bocca aperta e gli occhi sgranati.
«Questo è l’aeroplano, ci si vola e ti porta fino in capo al mondo.»
«Cioè fino a Torino?» Chiedeva il figlio del Lup, che non era mai stato oltre il confine del paese.
«Questo è il telefono cellulare, ci parli dentro e non c’è bisogno che qualcuno ti sia vicino per riuscire a sentirti.»
«Cioè ci parli dentro e ti esce la voce grossa che ti sentono fino a Ivrea?» Chiedeva il figlio dell’Aquilot, che c’aveva parenti fino a là.
«Questa è una lavatrice, ci metti i panni sporchi e lei te li lava.»
«Cioè li mangia e li lava quando sono nella sua pancia?» Chiedeva il figlio del Mignulin, che tendeva a spiegarsi il mondo attraverso la pancia e il cibo che, magro com’era, probabilmente poco ne vedeva e tanto ne immaginava.
«Sì e poi te li restituisce quando va di corpo e te li ritrovi di nuovo sporchi!» Ribatteva il figlio del Paiasu, quello che mio padre teneva in conto spese perché «C’è sempre tempo a piangere,» diceva, «ma una buona risata, ogni tanto, non fa male.» E giù tutti a ridere.
 
Col tempo, il grengiotto di Oreste “Qua e Là” divenne quello che lui soleva definire di volta in volta come Centro Sociale o Parco Giochi o Università della Prima Età, tutti nomi sconosciuti che poi noi bambini ci rivendevamo nei nostri racconti declinandoli nei più svariati modi. Non c’era un vero e proprio giorno o orario per andarci: quando si poteva, si partiva che tanto Oreste, una storia nuova da raccontare l’aveva sempre.
«La vedete, cari?» Ci indicava nelle giornate chiare e senza nubi puntando con il dito la pianura che si stendeva sotto di noi fino a perdersi a vista d’occhio. «Quella è la grande pianura e laggiù, oltre Torino, molto oltre, dopo quelle lontanissime montagne, c’è il mare.»
«Il mare…» Si faceva tutti insieme eco alle sue parole, che nessuno mai l’aveva visto, il mare. E qui lui variava e ogni volta una nuova idea.
«M’è venuta voglia di costruire un sottomarino.»
«Cos’è un sottomarino?»
«Un trabiccolo che va dentro l’acqua e ci si può immergere e ci si può esplorare i fondali, anche se il più delle volte serve a bombardare navi.»
«Un sottomarino! Tu fallo e poi lo proviamo nella guia del Viana!» Solo che poi lo costruì tanto grande che non riuscimmo a trasportarlo e tanto meno ci sarebbe stato verso di farlo affondare nella fonda del nostro fiume, anche fosse stato al suo massimo flusso nel periodo dello sciogliersi delle nevi.
 
In quanto figlio di Conte e discolo, non avevo da lavorare e le volte che bigiavo le lezioni del mio Maestro, nell’arco di una settimana, non si contavano sulle dita di una mano, così ero di sicuro, tra i bambini della valle e non solo, quello che passava più tempo al grengiotto.
«Ora sono qua e dopo sono là. E poi il là diventa qua e il me si spezzetta in qualcosa che non so e comincio a parlare e a fare e tutti mi guardano come si guarda un cane se parla e di cani che parlano non se n’è mai visti, credo.» Mi soleva ripetere sempre più spesso Oreste nei momenti in cui attendevamo l’arrivo degli altri.
Un giorno, però, i bambini non arrivarono e al loro posto ecco spuntare, da dietro il costone, gli adulti, tutti i maschi del paese, con gli sguardi arruffati.
«Non c’è verso: i bambini, qui, non te li facciamo più venire che poi devono lavorare e perdono tempo nel raccontarsi quelle tue favole e non va bene.» Questo il sunto di un processo che gli tennero lì su due piedi. «E per farti capire che si fa sul serio, siamo venuti per smontarti i trabiccoli, che neppure vogliamo che rimangano come miele per attirare quegli sconsiderati dei nostri figli. E ringrazia che c’è il Contino qui con te che altrimenti non ci limitavamo a rompere solo quelli!»
«Fate pure.» Rispose Oreste. «Ma vi prego, non toccate i pannelli solari che altrimenti rimango senza corrente e poi che faccio?»
 
Fu l’ultima volta della mia infanzia che vidi il grengiotto. Tornato al castello, il Signore Conte mio padre mi fece rinchiudere nella torre come neppure la più bella delle principesse dai lunghi capelli.
«Tu dal matto non ci vai più, intesi?» Mi urlò quella sera stessa, non appena legato il mio puledro nella stalla. «E per esserne certo che ti passi la voglia, ti chiudo nella torre e nei prossimi mesi dovrai recuperare tutte le lezioni perse con il Maestro, intesi?»
Passarono i giorni, passarono le settimane, passarono i mesi e nel chiuso di quelle mura non potevo fare altro che ricordare e immaginare. Quando ti trovi impossibilitato, e bloccato, e per quanto lo desideri tu non possa fare altro che accettare la situazione, allora ecco che cominci a pensarti d’essere Là e non Qua e a lavorare di testa, e a fare e a smontare. In presenza del Maestro mi mantenevo ligio e concentrato, ma una volta solo cominciavo a scrivere i miei appunti e a immaginare di cose tipo i viaggi sulla Luna e a come fossero fatte le macchine per arrivarci. Macchine che, ne ero certo, il vecchio “Qua e Là” sarebbe stato in grado di costruire, anche se non funzionanti.
 
Una sera, quella prima della mia liberazione per, a detta di mio padre, buona condotta, una pietruzza s’infranse contro la mia finestra. Era Oreste, con se aveva il suo cane e ai piedi un fagotto, immagino pieno di suoi strumenti.
«Ehi!» Urlai, non troppo forte per non farmi sentire.
«Ehi» Fece lui di rimando, alzando appena la mano in un saluto. «Allora ti lascio il cane, me lo tieni tu?»
«Certo…» Gli risposi. «Ma dove vai?»
«In giro, in giro.» Ribatté e senza altro aggiungere afferrò il fagotto, si voltò e scomparve.
 
E ora che ho più o meno la sua età, lo sto ancora aspettando. E penso al Qua, e penso al Là, ed entrambi li racconto a chi mi sembra che abbia orecchie per pensare.

I commenti sono chiusi.