Strada Statale 221

Ilaria fissa fuori dal finestrino, china in avanti e con lo zainetto di pelle tra le braccia.
Giro la chiave, i fari illuminano il calcestruzzo del parcheggio sotterraneo. Sgancio il freno a mano. Mi aggrappo al poggiatesta del passeggero e scivolo in retromarcia fuori dal posteggio. Una gallina di pezza è accovacciata sul seggiolino di Michele. Con quale spirito lo andrò a prendere dai miei? L’avviso delle cinture di sicurezza si lamenta. Ilaria lancia lo zaino sul sedile posteriore, tende il nastro e mette a tacere l’allarme.
Attendo il passaggio di un furgone bianco ed entro nel traffico.
Ilaria si mordicchia un’unghia. Sposto la mano dalla leva del cambio e le sfioro la coscia. Si appiattisce contro la portiera, mi afferra il braccio e lo spinge lontano da sé.
«Non mi toccare», ringhia. «Se ci provi un’altra volta, giuro che prendo il volante e ti mando a sbattere contro un camion.»
Avrei riso, in un’altra situazione. «Scusami, è stato un gesto automatico.»
«È meglio se pensi a quel che fai, d’ora in poi.»
Incasso il consiglio senza ribattere. Cosa risolverebbe un nuovo litigio? Non scenderemo dall’auto con la voglia di ricominciare da capo, dimenticando tutte le accuse che ci siamo appena vomitati addosso dalla psicologa. Terapia di coppia, la chiamano. A me è parso un regolamento di conti, un duello a chi feriva l’altro nel modo più infame, davanti a una sfinge che apriva bocca solo per darle ragione. Prima o poi, Ilaria mi rinfaccerà che mi sono comportato da stupido. Era una trappola. Del resto, aveva organizzato tutto lei. Non era, non eravamo così.
Prendiamo il cavalcavia del centro commerciale. Guido in silenzio rotonda dopo rotonda. La periferia di Novara lascia spazio alle risaie. All’incrocio per svoltare verso Mortara, premo la manopola dell’autoradio ma interrompo subito il CD dei Pink Floyd. Metto Radio 1 nella speranza di ascoltare un GR. Riconosco la voce di un radiocronista. Mi ero scordato che stasera giocasse il Milan. Almeno assocerò questo viaggio al calcio anziché alla mia canzone preferita.
«Devi proprio ascoltare una cazzo di partita?»
Abbasso il volume. «No, non devo. Ma non posso neppure restare in silenzio ad aspettare che tu mi dica cosa hai intenzione di fare di noi.»
«Devo dirtelo io, adesso? All’improvviso ti è passata la voglia di atteggiarti da puffo quattrocchi?»
«Io?»
«Tu.»
«Senti chi parla. Non l’ho voluta io questa situazione, ti ricordo.»
«Ah sì? E chi l’ha voluta? Sentiamo. C’entra per caso quella tua amichetta della palestra? Oppure dobbiamo ringraziare i pokerini del giovedì sera?» Mi colpisce alla spalla. «Non penserai forse che io sia così stupida da non aver capito?»
Gonfio i polmoni, incerto se usare l’aria per calmare me o insultare lei. «Possiamo almeno mantenere una parvenza di civiltà, Ila?»
«Accosta!»
«Qui, in mezzo al nulla?»
«Accosta, Stronzo! Fammi scendere!»
Sgancia la cintura di sicurezza. Il sibilo dell’allarme invade l’abitacolo. Ilaria mette un ginocchio sul sedile e si allunga verso il retro.
«Ma che diavolo stai facendo!» grido. Le metto una mano sulla pancia e spingo finché non la rimetto a posto.
«Ti ho detto che non mi devi toccare!» Comincia a picchiarmi sul braccio. Lo sollevo per difendermi. Spinge a due mani contro il gomito. Sbandiamo verso sinistra. Cerco di afferrare il volante con entrambe le mani, ma Ilaria mi strattona fuori di sé. Le ruote sterzano di colpo verso destra. Inchiodo. Finiamo di traverso e Ilaria mi cade addosso. Riesco ad abbracciarla e la stringo a me come se dovessi spaccarla in due. L’auto si rizza sulla fiancata, si ribalta e striscia roteando sulla capote.
Smettiamo di gridare solo quando siamo sicuri di esserci fermati.
Alzo lo sguardo e vedo la gallina di Michele sul soffitto dell’auto. Ilaria piange spaventata, trema e mi fissa atterrita come se il mondo fosse finito.
Oppure, è appena ricominciato.