Notte di Natale

A volte bisogna pensare prima prima di agire. Sesto classificato nella 110° Edizione di Minuti Contati con Gianni La Corte come guest star, un racconto di Marco Roncaccia.

 
Fra poco, prima che nasca il figlio di Dio, il figlio di uno stronzo se ne andrà.
Chi sta per andarsene sono io, il pezzo di merda invece è, anzi è stato, mio padre.
Le colpe dei padri devono ricadere sui figli e io ho bevuto il contenuto del flacone per saldare il conto.
Scrivo queste note per far sapere cosa è successo.
In queste scatole c’è tutto il necessario per riscostruire la storia.
 
Mia madre ha mandato via di casa mia padre la notte di Natale di venti anni fa.
Ho un vago ricordo di quella sera, avevo solo quattro anni.
Urla, vestiti lanciati dalla finestra e lui vestito da babbo natale.
«Buon Natale, piccolo», credo siano state le sue ultime parole, prima di uscire dalla mia vita.
 
I fatti li avrei scoperti solo parecchi anni dopo.
i miei insegnavano in un liceo
Una collega di mia madre aveva visto una ragazza dell’ultimo anno intrufolarsi in sala professori e mettere un foglio piegato nella cassetta di mio padre.
La donna, curiosa, lo aveva recuperato e letto. Oltre a proclami d’amore e vaneggiamenti adolescenziali c’era la descrizione della sua prima volta, in macchina, con quel porco di mio padre, nel parcheggio del MacDrive.
La professoressa aveva rimesso il foglio al suo posto ed era rimasta con il dubbio se parlarne a mia madre fino a tarda sera della vigilia. Poi aveva alzato il telefono, mentre mio padre indossava barba finta e abiti rossi.
 
Mia madre non si è mai ripresa del tutto e ha sempre impedito a quel bastardo di avvicinarsi a me.
Sul letto di morte, mi ha fatto giurare che non sarei mai diventato come lui.
 
So che fu licenziato in seguito allo scandalo e deve avere iniziato a girare il mondo.
Lo so perché ogni anno per Natale mi è sempre arrivata una sua lettera, sempre da un paese diverso.
Ogni volta che leggevo il nome del mittente, il suo nome, la bruciavo ancora chiusa in un portacenere.
 
La busta arrivata oggi pomeriggio era a nome di uno studio notarile.
Per questo l’ho aperta.
Mi si facevano le condoglianze e mi si comunicava che, in seguito al decesso del mio congiunto, e come unico erede, entravo in possesso dei suoi averi depositati presso un centro di self storage della mia città.
Allegato c’era un biglietto da visita della SMARTBOX “deposito h24 365 giorni l’anno” sotto l’indirizzo e un numero.
Quella carogna, anche da morto, si divertiva a rovinarmi la notte di Natale.
Ho preso l’accendino e il portacenere. Poi, non so perché, ci ho ripensato. Il fuoco stava attaccando il biglietto.
Ci ho soffiato sopra e si è spento.
Sono salito in macchina e sono arrivato qui.
Sono entrato nell’ufficio e ho mostrato il biglietto bruciacchiato all’addetto.
Questi ha aperto una teca dietro di lui, ha preso una chiave e me l’ha data.
«Secondo piano sotterraneo corridoio 4 box 25, l’ascensore è in fondo a destra»
Sono arrivato in questa stanza di 2 metri per 2 contenente una decina di grandi scatoloni.
Mi sono chiuso dentro e ho preso possesso della mia eredità
Ne ho aperti nove, pieni di paccottiglia di nessun valore, masserizie e vestiti smessi.
Ho guardato l’orologio, erano le 22.
Da 4 ore perdevo tempo in mezzo alla roba di quel testa di cazzo.
Ho pensato di andarmene ma poi ho aperto anche l’ultima.
Cartelline, documenti e un grosso album fotografico con una slitta sulla copertina.
Nella prima pagina c’era scritto “24/12/2002”, in quella successiva una foto con un babbo natale, con barba posticcia, mio padre, ho pensato, e un bambino biondo sorridente di non più di 10 anni.
Sullo sfondo il duomo di Milano illuminato. Alcuni primi piani del bambino e poi una nuova scritta “24/12/2003” stavolta, vicino a mio padre, una ragazzina nera con un piumino rosa e sullo sfondo il Big Ben.
Ho continuato a sfogliare, anno dopo anno, ogni notte di Natale una città e un bambino diversi.
Perplesso ho preso una cartellina trasparente. Ho estratto un foglio a caso.
Era scritto in Inglese, diceva che Blessing Ogbodo era scomparsa, si invitava chiunque l’avesse vista a contattare immediatamente le autorità.
Seguiva descrizione, con riferimento a una giacca rosa e la foto, indecifrabile, della bimba.
Ho preso una busta di carta piena di foto e l’ho svuotata per terra.
Bambini, gli stessi delle foto di Natale, nudi, addormentati, in pose sconce.
Ho iniziato ad urlare a prendere a calci e a pugni le scatole, a piangere.
Ho tirato tutto all’aria.
Sono uscite fuori una giacca, un paio di pantaloni e un cappello rossi con i bordi bianchi e una barba posticcia. Avvolto nella giacca un flacone pieno a metà di un liquido trasparente.
Un’etichetta scritta a mano con due dosaggi corrispondenti alle parole “sonno” e “letale.”
Il dolore era insopportabile, l’ho aperta e ne ho bevuto il contenuto.
 
Sento la testa girare. Non riesco più a scrivere, devo sdraiarmi. Sento dei colpi, o forse li sto immaginando.
Poi una voce, lontana.
«Signore, ehi signore, è ancora lì dentro?»
Vorrei rispondere, ma non posso.
«Signore c’è stato un errore!»
Si un errore, nascere figlio di uno stronzo, ma sto rimediando, penso.
«Signore, le ho dato le chiavi del box sbagliato»