Tasse

Damian mi indica una porta sulla sinistra. «L’indirizzo è questo, capo. Cezar Albescu.»
Il marciapiede è lurido di macchie scure, puzza di piscio. «Bel posticino.» Busso con le nocche e l’uscio tarlato traballa sui cardini. «Quanti ce ne deve questo?»
Damian controlla sul tablet. «Seicento.» Lo infila nella tracolla, fa un passo verso la finestra e spia oltre il vetro oscurato.
Sono le tasse di due mesi, il tizio è rimasto parecchio indietro coi pagamenti.
«Ehi,» grido. «C’è nessuno?»
La porta si apre di una spanna, sotto alla catenella tesa un bimbetto con gli occhi assonnati mi squadra.
«Chi… chi siete?» Si gratta la massa informe di capelli.
«Esatto–» Tiro una gomitata a Damian e lo zittisco.
«Dobbiamo parlare con tuo padre, ragazzo. È in casa?»
«S-sì, ma non si sente molto bene.»
«Ci vorrà solo un minuto.»
«Chi cazzo è che rompe i coglioni?» Un rantolo.
Il bambino incassa la testa tra le spalle e sparisce dalla fessura. Una sedia stride sul pavimento, passi pesanti si avvicinano. Una mano grassoccia leva la catenella e spalanca la porta.
«Che volete?» L’uomo, pallido come un cencio, ha il fiato corto. Qualcuno deve averci preceduti.
«Cezar Albescu?»
Sgrana gli occhi quando riconosce lo stemma del drago in bella mostra sulle nostre giacche. Damian lo spinge di lato ed entra in casa. Il tizio barcolla all’indietro, i quattro peli che si ritrova per barba annaspano per rimanere a galla nel collo lardoso.
Cristo, che puzza di sudore. «Potresti cambiare aria ogni tanto, Cezar» Spalanco la finestra ma la situazione non migliora di molto. L’odore dev’essere penetrato anche dentro i muri.
Con la punta del piede sposto un cartoccio di alluminio grande come un pallone da calcio e appoggio la mia borsa sul pavimento. Sotto a una poltrona sfondata una siringa sgocciola sangue. Non è un buon segno. Mi affaccio nell’altra stanza, un programma pomeridiano da falliti tiene compagnia a uno stuolo di mosche che ronzano sopra al lavabo. Sfilo un foglio da sotto i colori a matita lunghi sì e no un mignolo: una grossa faccia con la bocca spalancata e i denti aguzzi.
Scuoto la testa, mio figlio disegna le stesse cose.
«Davvero un appartamento meraviglioso, Cezar.»
«La ringrazio.» Si asciuga la fronte sudata con la manica del maglione.
«Era ironico.» Damian muove un passo e Cezar finisce col culo sulla poltrona. Deve smetterla di fare lo spaccone con i contribuenti. Siamo esattori, cazzo, non dei poco di buono.
«Damian, accompagna di là il ragazzo e fallo disegnare.»
«Sicuro di non aver bisogno di me?»
Scuoto la testa. «Non ci darà problemi.»
Cezar annuisce con gli occhi fuori dalle orbite. Quando abbiamo iniziato a incutere così tanta paura? Nessuno vorrebbe pagare le tasse, lo capisco, ma questo è davvero troppo.
Damian afferra il braccio del bambino e lo accompagna in cucina. Chiude la porta che cigola sul pavimento.
Mi volto e il grassone ha già disteso le braccia sui braccioli della poltrona. Apre e chiude i pugni. Sfilo dalla borsa il laccio emostatico e gli alzo la manica fino alla spalla. «Che disastro!» Sembra un groviera. «Certe cose bisognerebbe lasciarle fare ai professionisti.»
Infilo un guanto monouso. «Sei parecchio indebitato, eh, Cezar. Quanto te ne hanno preso?»
Alza l’indice. «Un litro.»
«Porca puttana. Sei fortunato a essere ancora in piedi.»
La porta sull’altra stanza è chiusa, Damian non può sentirmi.
Cristo Santo se gli faccio il prelievo questo tira le cuoia. E seicento millilitri sono troppi per quel ragazzino.
«Per stavolta chiudo un occhio, ma smettila con gli strozzini o saremo costretti a far pagare a tuo figlio le tasse.»
«Damian, andiamo.»
Sbuca dalla cucina. «Hai già finito?»
Apro la porta d’entrata e gli faccio cenno di uscire. Il bambino ci saluta con la mano, suo padre sbatte le palpebre. Chissà se ha capito in che guai rischia di cacciarsi.
Mi incammino verso la macchina. Damian mi ferma. «Capo, posso farti una domanda?»
Tiro fuori dalla tasca il pacchetto di Viceroy e l’accendino. «Chiedi pure.»
«Ti piace ancora questo lavoro?»
Stringo le labbra. Domanda difficile. «Insomma. Da quando il Conte Dragwyla si è risvegliato sono cambiate molte cose. Ma che ci vuoi fare, il mondo va avanti e bisogna pur lavorare.»