Tre palline di gelato

«Perché non mi può mettere tre palline di gelato? Io gliele pago!»
La ragazza dietro il bancone inspira profondamente l’aria salmastra. Fa appello a tutta la pazienza che ha e ripete la stessa cosa che dice a tutti.
«Le posso mettere tre spatolate. Anche quattro, guardi; un gusto glielo regalo io. Ma il capitano mi vieta di fare le palline.»
La guardo più incredulo che allarmato.
«…glielo vieta il capitano? Sul serio?»
Lei conferma con un cenno del capo, poi fa spallucce e si appresta ad abbrancare la spatola del gusto stracciatella. D’improvviso vengo richiamato dalle urla che provengono dal bancone del bar. Tutte le teste sulla lounge del ponte superiore si voltano per capire cosa sta succedendo. È una donna, paonazza e infuriata.
«In questo stato non le compro! Non le vede che le praline di cioccolato sono tutte schiacciate come se qualcuno ci si fosse seduto sopra? Non potete vendere così! Mi ridia indietro i soldi!»
Il barista non fa una piega e riprende la scatola dalle mani della cliente, sotto lo sguardo di almeno quattro dozzine di passeggeri. Qualcuno si allontana dal bar per ribadire la propria solidarietà alla donna, qualcun altro inizia una personale indagine per verificare l’effettivo stato delle sfere di cioccolato. Il personale esibisce orgoglioso le confezioni sull’espositore: devono essere state in fondo allo scatolone, sono tutte appiattite.
Mi sento chiamare: il mio gelato è pronto.
Vado a gustarmelo sulla murata di dritta, troppo in alto perché gli spruzzi delle onde mi raggiungano mentre la chiglia solca l’oceano. Che pace! Davanti ai miei occhi il mare si distende all’infinito e il colore da cupa tempesta che ha sotto di me, sfuma in un grigio con toni d’azzurro all’orizzonte, una linea piatta che circonda la nave. Siamo talmente lontani dalla terraferma che in cielo non ci sono uccelli e la brezza va e viene, indisturbata portando con sé un lieve fruscio raccolto sull’acqua, da qualche parte.
Sento sbuffare alle mie spalle. È Evaristo, l’ingegnere che ha la cabina accanto alla mia.
«Ti annoi?» gli chiedo. «Potresti giocare un po’ a tennis.»
«No.»
«Pallavolo?»
«No.»
«Dai, neppure a calcetto? Neppure quello ti va?» Per me è la prima volta, ma dai racconti di chi è già stato su una nave da crociera so che ci sono molte attività sportive.
«Mi andrebbe, ma non si può.»
Lo esamino. Adesso lo noto: ha delle occhiaie profonde e si guarda attorno inquieto. Fissa prima uno poi l’altro tutti i passeggeri, come se cercasse una risposta. L’espressione del volto, mobile e cupa, esprime urgenza e sconcerto.
«Evaristo, che hai, non stai bene? Hai preso troppo sole?»
Mi ha raggiunto e ora anche lui fissa l’orizzonte, le mani quasi bianche tanto sono strette, aggrappate al mancorrente. Respira con forza, in modo irregolare e inizio a preoccuparmi.
«Tu hai preso le polpette, a pranzo?» mi domanda. Boccheggio per le vertigini del cambio d’argomento. Poi sgrano gli occhi quando credo di capire.
«Erano avariate? Devo chiamarti il medico di bordo?»
Colpisce il mancorrente, è irritato.
«Che c’entra il medico? Al diavolo il medico. Non le hai notate?»
«Io non… Che dovevo notare?»
Ora si volta del tutto verso di me. Gli occhi sono due fessure da cui sembra traboccare un filo di follia mentre il vento si rafforza.
«Erano appiattite, schiacciate.»
È il mio turno di guardarlo indispettito.
«Ma questo cosa…?» e invece mi afferra un polso e mi interrompe. Mi sembra che il fruscio di sottofondo sia diventato più forte. Grida.
«Non ti sei chiesto come mai si possa giocare a carte, a hockey su ghiaccio, si può nuotare e tirare con l’arco… ma non si possa giocare a tennis né a calcio? Anche il flipper ha smesso di funzionare.»
«Ma di che diavolo parli?» urlo.
«Le sfere! Qui le sfere non esistono più!» farnetica strillandomi in un orecchio per farsi sentire. «Sono diventate piatte!»
Mi afferra la testa e mi costringe a guardare a prua. L’orizzonte non c’è più.
Il fragore è quello dell’acqua che cade nel nulla. È la fine del mondo.