Ki

Steampunk in salsa orientale per questo racconto di Sara Tirabassi, terzo classificato nella SPECIAL STEAMPUNK EDITION.

 
L’imperatore percorse i sei tatami che lo separavano dal soldato chino di fronte a lui. Prese la testa che gli porgeva e lo guardò uscire dalla stanza, camminando all’indietro, senza mai alzarsi. Osservò la testa con calma, rigirandola tra le mani. Riconosceva l’elmo che la nascondeva: l’ampia ala dorata che proteggeva il collo, l’emblema di ottone cesellato, i lineamenti della scura maschera frontale; apparteneva all’uomo che tante volte aveva guidato le sue truppe.
L’imperatore tese i muscoli del viso per scongiurare una lacrima, e fu allora che notò, inciso sul retro dell’elmo, il kanji che rappresentava il ki, lo spirito, l’indefinibile punto in comune tra vita, passione, costanza, forza; l’essenza che anima e dà senso alla vita di ogni uomo. Un simbolo adatto a Takamori Saigo.
Prima di morire l’imperatore ebbe appena il tempo di ricordare come ai bambini si spiegasse che le linee del kanji disegnavano una pentola di riso al di sopra della quale si alzava, silenzioso e potente, il vapore.
La testa esplose.

 
Shinpachi e Toshiaki aspettavano di poter vedere Takamori. Bevvero in silenzio il tè che era stato offerto loro. Toshiaki, seduto sui talloni, spostava il peso del corpo da una parte all’altra nel tentativo di alleviare il dolore al ginocchio che lo tormentava.
«Pensi che accetterà? Sono anni che si è ritirato.»
«Deve guidare la ribellione.»
Dopo un lungo silenzio, Shinpachi proseguì: «E poi che vuoi fare? Dobbiamo provare.»
«Ma dicono che da quando si è chiuso qui sia… sai…»
«Impazzito! Rubo le statue di Buddha dai templi e riempio la notte di strani rumori. È così?» esplose una voce profonda dietro di loro. I due sobbalzarono. Takamori torreggiava alle loro spalle, il corpo massiccio, le spalle larghe, la testa quadrata e l’espressione cupa. Poi scoppiò a ridere di gusto, di una risata calda come una spada dimenticata al sole.
Il samurai sapeva benissimo perché si trovavano lì.
«Quanti uomini abbiamo?»
«Pochi. Disposti a combattere fino allo stremo» rispose Shinpachi.
«Anche contro l’esercito imperiale?»
«L’imperatore ha decretato la fine dei samurai. Lo combatteranno. Non hanno altro.»
Toshiaki aggiunse: «L’impero ha moschetti e cannoni, e se sospetta la rivolta ci toglierà le armi. Avremo solo spade.»
«Seguitemi» disse Takamori «forse chi mi crede impazzito non ha poi tutti i torti.»
 
Toshiaki guardava sorgere il sole da dietro il frontale dell’elmo. Shinpachi e Takamori stavano passando in rassegna il battaglione di uomini di ferro. Il sole scaldava le grandi piastre sovrapposte che formavano una grande ala nella parte posteriore degli elmi nascondendo le caldaie, arroventava le bacchette del corpetto e dei gambali che ospitavano tubi e valvole, accendeva i volti dagli occhi vuoti forgiati col metallo rubato ai templi.
Takamori controllava ingranaggi e giunture, regolava rubinetti e sfiati; sottili spire di vapore si levavano dai suoi samurai senz’anima.
«Perderemo questa battaglia.» Gli aveva detto Takamori.
«Ma non la guerra.»