Pasto d’Ombre

Un racconto di Alessandro Forlani, guest star dell’Ottava Edizione della Quinta Era di Minuti Contati, la novantottesima della storia del contest più veloce del web.

 
Non torno volentieri nel quartiere in cui nacqui. Le tre fermate d’autobus che mi separano da quelle case, villette abbandonate e condomini in gran parte sfitti, mi rimproverano che nella vita non ho ottenuto granché: solo di traslocare in un residence più recente. Non torno, soprattutto, nel cortile di via Landolfi: un quadrato di calcestruzzo fra edifici fatiscenti, cui si affacciano finestre silenziose e impolverate; tende lacere che si sfilacciano fra gli scuri, graffiti, murali e manifesti che si sbiadiscono sotto il sole. Al disagio dell’impressione che sia molto più grande del perimetro di mura che lo circondano dai quattro lati, c’è da aggiungere che il luogo mi riporta a un episodio, un ricordo infantile: lo schiocco di cesoie d’un giardiniere ingobbito intento ad accudire fiori esotici disgustosi; una forma, in un androne, accovacciata su un pasto; masticare e succhiare con osceno appetito. Mia madre, all’improvviso, mi afferra per un polso: mi trascina via da là e mi accorgo che è atterrita, piange; insisto a domandare ma non vuol dirmi il perché. Immagini incoerenti di ormai trent’anni or sono.
Oppure è solo un incubo; e io non voglio ammettere cos’è accaduto quel giorno.
Non torno volentieri: poiché la malattia ci tolse nostro padre, però, fui costretto ad incontrarmi con mia sorella, Alessandra, per le solite meste beghe di conti in banca e notai. Disertammo la vecchia casa, ché le stanze erano grevi di un doloroso decorso, di lutto; ci incontrammo in un caffè e discutemmo dei nostri affari. Triste e insofferente di quei calcoli meschini, che riducevano la intera vita del babbo, la nostra, a una somma di interessi su un prestampato ad inchiostro blu, spezzai la conversazione con un’occhiata alla strada. Scorci di quei luoghi dove un tempo giocavamo, ci prendemmo le prime cotte, ci accapigliammo la prima volta:
«Ma tu, di queste parti: hai più visto nessuno?»
«Spesso, sì», mi sorrise con amarezza, «non… siamo granché cambiati; né Stefano che insisteva sarebbe stato pilota né Laura, bellissima, che puntava a top model: è impiegata all’ufficio anagrafe e sta al posto di un suo zio; nell’ufficio qui all’angolo, se ti va’ di incontrarla.»
Guardai fisso la strada vuota e un randagio che orinava ad un lampione, tacqui; schiacciai la sigaretta nel posacenere di zinco nero.
«… neppure tu ed io», insistette Alessandra.
«Ci credemmo dei gran campioni.»
«Sì, lo siamo stati: ma mamma ha ragione a dire che in questo posto c’è qualcosa che ristagna e ti consuma.»
«Certo, è depressa.»
«La piccola città.»
«È una fissa che ha avuto sempre; da… quell’episodio…»
«Ce ne sono stati tanti.»
«… quel vecchio ritardato che potava là al cortile. Le sue siepi di piante; quello schifo di piante. Credo ci trovò soli, e lui… con le cesoie; e qualcosa, raccapricciante, che è successo nel sottoscala… »
«Perché ti torna in mente?»
«… avrà avuto settant’anni, allora… sarà morto… c’è una certa connivenza fra gli spettri e i parassiti…»
«Cosa dici?»
Mi accorsi, istupidito, che sì: parlavo a vanvera. Raccontavo dell’incidente che si svolse fra quelle mura:
«Dico che è un quartiere che uccide e ti divora.»
Pagai al cameriere due euro di caffè, Alessandra mi prese per il braccio; ci incamminammo alla fermata dell’autobus fra discorsi avviliti sui suoi figli e il marito, il mio lavoro precario all’ateneo e i soldi che non bastano e i modi di arrabattarsi. E tacemmo di nostro padre e le scartoffie che ci ingombravano. Ogni strada era un aneddoto dell’infanzia e giovinezza; ci stupimmo di persone che le abitavano già allora che sbirciavano, con astio, dietro i vetri appannati. Provai pena di certe donne e certi uomini in carrozzella; più di tutto mi inquietarono quelle facce scheletrite di persone che a memoria ricordavo molto anziane: ché dovevano grattare, con le grinfie centenarie, ai battenti sverniciati di appartamenti in rovina.
All’imbocco di via Landolfi mi si strinse lo stomaco: l’ingresso a quel cortile di proporzioni sbagliate; uno scorcio più profondo, più lungo, di un lato del condominio entro il quale era iscritto, mi invitava a visitarlo con un terrore infantile. Insistetti con Alessandra che prendessimo un’altra strada:
«Ma va là, che perdi l’autobus», lei mi costrinse.
Trasalii di grida stridule e qualcuno che correva, da un vicolo a sinistra apparvero bambini; si inseguirono strillando fino in fondo alla strada. L’ultimo del gruppo, un mingherlino lentigginoso, cadde spintonato sulla soglia del cortile, ruzzolò piangendo forte fra i tarassaco, dentro, tutto a un tratto azzittito né lo vedemmo tornare fuori.
«Se si fosse fatto male?»: mia sorella corse là. La seguii, esitai sull’ingresso; «muoviti, scemo! dev’essere entrato qui.»
Mi indicò di cercare in un’androne a sinistra, mi spinse; lei andò a guardare in un porta dirimpetto. Mi inoltrai nella gramigna che cresceva fin il ginocchio, e pestai all’improvviso un che di viscido, molle. Caddi a terra, battei l’anca e inghiottii raccapricciato: ero steso su un cespuglio di quei fiori disgustosi.
«… ma allora… sono veri!…»; mi lasciarono inebetito: non somigliavano a nessun altro che conoscessi né avessi visto, stordivano; e espandevano un olezzo che sforzava ai conati. Di fatto, a guardar bene… non avevano colore.
Mi alzai, dolorante, per scrollarmi da quello schifo; mi accorsi che le aiole suppuravano tutt’attorno. Molti metri di piante oscene fino all’ingresso del sottoscale; mi annebbiarono quel loro odore e un’improvvisa vertigine.
Chiamai mia sorella; udì la mia stessa voce echeggiare fra i quattro muri, ma invece di Alessandra mi rispose quello schiocco; lo scatto di cesoie che potavano instancabili.
Là, sull’androne, c’era il bimbo ammutolito. Lo teneva per la mano quell’anziano in tuta lisa, gobbo; con il zinale inzaccherato di icori, stivali, le forbici e una cesta di quei fiori. Quella faccia avvizzita, quello sguardo libidinoso, che tornava da trent’anni nei ricordi più terribili.
Il dolore di una vita mi arse dentro e offuscò la mente: non permettergli di fare la stessa cosa che fece a te…
Gridai al giardiniere di lasciare quel bambino, gli andai contro rabbioso. Pestai nei suoi cespugli, mi feci largo fra l’erba alta, ché sembrava che in un salto potessi mettergli le mani addosso. Invece era lontano un’impossibile distanza: mi affannai, per almeno un quarto d’ora, lungo una parete che sembrava di pochi passi. Il vecchio, la sua preda, scomparirono nel sottoscala. Udì un’eco metallica e il giardiniere si riaffacciò: con la lama delle forbici che gocciolava di rosso cupo.
«Alessandra!», gridai: ma sapevo d’esser solo; percepì che mia sorella era restata in un altro mondo. Mi buttai sull’assassino, arrivai col fiato corto, sudato; mi dolevano le gambe di chilometri di corsa. Lo schifoso sgattaiolò in quell’angusto passaggio, esitai ad inseguirlo nauseato da un altro puzzo. C’era odore di mattatoio, di muffe e latte acido; lo sbafare da qualche parte di un animale su un empio pasto.
Sbattere, succhiare, ingollare e masticare.
Il vecchio si affacciò da dietro un angolo: corsi; febbricitante di rabbia ed odio lo agguantai per il bavero, gli tolsi l’attrezzo orribile e lo tenni a una parete. Lottò, si accanì di sfuggirmi in un sudicio ripostiglio; riuscì a divincolarsi e tuffarsi in quel buco buio. Mi fece incespicare e caddi dentro carponi e…
Dio, l’ho immaginato! devo averlo immaginato!
Franai su una tinozza di metallo arrugginito: da un raggio del giorno pallido, che filtrava da un lucernaio, vidi che tracimava di un pastone orripilante, fiori e resti umani minuti e delicati. Arretrai inorridito. Dalle tenebre affiorò la bocca orrenda, la fauce, della forma rannicchiata che si nutriva da quel catino: una gola irta di denti e cartilagine lattiginosa: spalancata nel volto cieco, rugoso, di una massa putrescente su un seggiolino a rotelle. Protese un’appendice che mi avvolse alle caviglie. Il vecchio mi scansò, tornò nel corridoio, raccolse le cesoie e schioccò voluttuoso:
«… tu capisci, piccolino, che si deve pur mangiare…»
Qualcuno, in quell’istante, mi agguantò per un polso: Alessandra mi tirò dal buio orrendo del sottoscale all’aperto nel cortile, fra le ortiche, nell’edera; alla polvere silenziosa di edifici disabitati:
E aveva gli occhi gonfi arrossati e tremava di spavento.
«Che cosa ti è successo?»
«Io… non l’ho trovato», balbettai, «non c’era là.»
«Sarà uscito da un altro lato.»
Inghiottimmo, impallidimmo, e non dicemmo nient’altro: ma entrambi sapevamo che non c’erano altre porte.
Attraversammo in pochi passi il cortile e uscimmo in via Landolfi: un’occhiata ai graffiti all’improvviso sbilenchi, un olezzo di cose estranee, e un frinire metallico, ci persuasero a incamminarci né volemmo voltarci indietro.
Salito sul predellino dell’autobus che partiva, nel tossito del motore e il chiacchiericcio dei passeggeri, mia sorella, all’improvviso, mi abbracciò e singhiozzò:
«Era orribile! Eri lì!… rannicchiato in un angolo!… Chiamavi la mamma!… il sangue e la ferita!…»
Non ci siamo più incontrati, non ho avuto sue notizie.
 
Le emittenti locali, i giornali, il vicinato, non riportano di un bambino che è scomparso in questi giorni. Sto sfogliando la cronaca: non c’è nulla, a proposito. Ora ho l’impressione, seduto al finestrino, che l’autobus corra pigro, giri in tondo da ore. E percorra le stesse strade del quartiere in cui nacqui.